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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Beau Travail

1999

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Un deserto accecante, quasi uno spazio metafisico più che un luogo geografico. Corpi maschili, tesi e scolpiti, si muovono all'unisono sotto un sole spietato, padrone assoluto di Gibuti. Eseguono rituali di addestramento che assomigliano più a una coreografia di Pina Bausch che a esercitazioni militari. In questa fornace di sabbia e sudore, Claire Denis orchestra non un film di guerra, ma un'opera lirica sulla repressione, un balletto sulla fragilità del machismo, un poema visivo che scava nelle profondità oscure del desiderio maschile. Beau Travail non si limita a raccontare una storia; la incide direttamente sulla pelle dei suoi personaggi, trasformando la Legione Straniera francese in un monastero ascetico dove la preghiera è la disciplina e il peccato è l'invidia.

L'impalcatura narrativa è, in apparenza, un trapianto audace e geniale del Billy Budd, marinaio di Herman Melville. L'oceano sconfinato di Melville diventa il deserto della Denis; la nave da guerra H.M.S. Bellipotent si trasfigura in un avamposto isolato; il candido e amato Billy Budd rinasce nel legionario Gilles Sentain (Grégoire Colin), un soldato modello la cui bellezza e innata grazia attirano l'ammirazione di tutti. E, inevitabilmente, l'oscuro e tormentato John Claggart, il maestro d'armi consumato da un'inspiegabile malvagità, trova il suo avatar nel sergente Galoup (un monumentale Denis Lavant). Galoup è il centro di gravità del film, un buco nero di risentimento la cui voce narrante, da un esilio autoimposto a Marsiglia, ci guida attraverso i frammenti della sua memoria, tentando di dare un ordine a un caos che è puramente interiore.

Ma dove Melville costruiva un'allegoria morale sulla lotta tra il Bene naturale e il Male inspiegabile, Denis scarta la teologia per l'antropologia, la parabola per la psicanalisi. La "depravazione naturale" di Claggart qui non è un dato di fatto metafisico, ma il risultato visibile di un desiderio represso, soffocato, che si manifesta come veleno. Lo sguardo di Galoup su Sentain non è solo quello di un superiore; è lo sguardo dell'amante respinto, dell'uomo che vede in un altro tutto ciò che a lui manca o che ha dovuto sopprimere. La camera di Agnès Godard, complice e quasi un'estensione del subconscio di Galoup, si sofferma sui corpi con una sensualità che trascende il voyeurismo. Le scene di addestramento, gli abbracci quasi omoerotici durante le esercitazioni, i panni stirati con una cura quasi domestica e ossessiva, tutto contribuisce a creare un'atmosfera carica di un'elettricità che non trova mai sfogo, se non nella violenza. In questo, Denis si avvicina più a Jean Genet che a Melville, esplorando l'erotismo implicito nelle gerarchie militari e nei corpi disciplinati, visti come oggetti di un culto profano.

Il film è una sinfonia di corpi. Corpi che lavorano, che combattono, che si aiutano, che si sfidano. La narrazione è ellittica, quasi un flusso di coscienza visivo, dove il dialogo è ridotto all'osso. La vera storia è raccontata dalla fisicità. Quando Sentain salva un commilitone caduto da un elicottero, il suo eroismo non è verbale, è un atto di pura forza e grazia che incrina ulteriormente l'armatura psicologica di Galoup. La disciplina ferrea della Legione, con i suoi rituali ripetitivi e quasi insensati (costruire strade che non portano da nessuna parte), è l'unico argine che questi uomini possiedono contro il collasso interiore. È un ordine artificiale imposto su un paesaggio che è l'essenza stessa del caos primordiale. In questo, Beau Travail evoca il Werner Herzog di Aguirre, furore di Dio, con la sua discesa nella follia in un ambiente ostile che riflette e amplifica la disintegrazione psicologica dei protagonisti. Ma mentre la follia di Kinski è espansiva e delirante, quella di Lavant è implosiva, un cancro che divora dall'interno.

La scelta di Denis di punteggiare il film con estratti dall'opera Billy Budd di Benjamin Britten è un colpo da maestro metatestuale. La musica operistica, con la sua grandiosità tragica, fornisce il correlativo oggettivo emotivo che i legionari, per codice e per natura, non possono esprimere. Le loro facce sono maschere di stoicismo, ma la musica di Britten urla la passione, la gelosia e la condanna che ribollono sotto la superficie. Questo contrasto tra l'esterno controllato e l'interno operistico crea una tensione quasi insopportabile. È un film che si sente più di quanto si capisca razionalmente, un'esperienza sinestetica che richiama il cinema di Terrence Malick, in cui la narrazione interiore filosofica si fonde con immagini di una natura tanto sublime quanto indifferente al dramma umano.

Ma Beau Travail non è solo un dramma psicologico senza tempo. È profondamente radicato in un contesto post-coloniale. La Legione Straniera, simbolo per eccellenza dell'avventura imperiale francese, è qui ritratta nel suo crepuscolo. Questi soldati non stanno conquistando nulla; sono anacronismi, fantasmi di un'epoca passata che mantengono in vita rituali di potere in una terra che non gli appartiene più. La loro presenza a Gibuti è quasi un'allucinazione, un'eco di una gloria svanita. La loro mascolinità, così performativa e codificata, appare fragile e insensata, un "bel lavoro" (beau travail) inutile, proprio come il titolo suggerisce. Non c'è un nemico esterno da combattere; il vero nemico è il vuoto, la noia, e il demone interiore che Galoup proietta su Sentain.

E poi c'è il finale. Una delle sequenze più iconiche, audaci e trascendenti della storia del cinema moderno. Tornato a Marsiglia, congedato con disonore, Galoup è nella sua stanza d'albergo. Prepara il letto come se fosse un sudario, si sdraia con una pistola. Potrebbe essere la fine. Ma non lo è. Improvvisamente, lo vediamo in una discoteca deserta, sotto luci stroboscopiche, mentre si lancia in una danza selvaggia, frenetica, disarticolata sulle note di "The Rhythm of the Night" di Corona. È un'esplosione catartica, la liberazione finale di tutta l'energia repressa nel film. È suicidio e resurrezione, spasmo e apoteosi. Denis Lavant, ex acrobata e ballerino, scatena il suo corpo in un modo che è allo stesso tempo grottesco e sublime. È l'antitesi totale della disciplina marziale vista fino a quel momento. È l'individuo che si frantuma e si libera dalla divisa, dal codice, dal ruolo. È il cinema che abbandona la narrazione per diventare puro gesto, pura energia cinetica. È un momento di cinema così potente da riscrivere le regole, dimostrando che un film può concludersi non con una risoluzione, ma con un'esplosione di pura, inspiegabile, liberatoria vitalità.

Beau Travail è un'opera ipnotica, un film che respira a un ritmo tutto suo. Claire Denis non dirige, scolpisce. Scolpisce la luce, i corpi, il silenzio, il paesaggio. Ha creato un'opera che è al contempo un adattamento letterario fedele nello spirito e radicalmente infedele nella forma, un saggio sulla mascolinità tossica, una riflessione sulla melanconia post-coloniale e un capolavoro di cinema sensoriale. È un film che non si guarda, ma si sperimenta, lasciando lo spettatore stordito e trasformato, come dopo un'esposizione prolungata a un sole troppo forte, incerto su cosa sia reale e cosa sia solo un miraggio della memoria e del desiderio.

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