Oltre il Giardino
1979
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Regista
Chance il giardiniere è una creatura che si ama da subito, dalla prima inquadratura. Non è solo un personaggio, ma un archetipo che Ashby, con la sua inconfondibile sensibilità, plasma come docile creta, ritagliandone una personalità indecifrabile, quasi zen nella sua feroce routine giornaliera scandita dalla TV, dalle rose da innaffiare, dall’auto da spolverare. Non una mera rappresentazione dell'autismo nel senso clinico, quanto piuttosto l'incarnazione di una mente pura, una tabula rasa che rifiuta la complessità del mondo civilizzato, o forse semplicemente non è attrezzata per decifrarla. È un eroe involontario che, con la sua assenza di malizia e di sovrastrutture, smaschera le vuote retoriche e le ipocrisie del potere e dei media.
Peter Sellers incarna quest’uomo grottesco divenendone la maschera ineffabile, un capolavoro di sottrazione attoriale. Non è la comicità slapstick del suo ispettore Clouseau, né la schizofrenia geniale del Dottor Stranamore; qui Sellers si annulla, diventa un guscio trasparente attraverso cui la semplicità di Chance filtra senza ostacoli. Si narra che Sellers, ossessionato dal ruolo, avesse trascorso mesi a perfezionare la voce e la cadenza del personaggio, riducendola a un sussurro monocorde, quasi privo di inflessioni, un timbro che rifletteva la sua mente spoglia da ogni complessità superflua. La sua salute fragile in quel periodo, che lo avrebbe poi condotto alla morte prematura poco dopo, infondeva al personaggio una patina malinconica, quasi un presagio di quella fine che lo attendeva, rendendo la sua performance ancor più toccante e indimenticabile.
Seguiremo le avventure di Chance che dall’umile ruolo di giardiniere tuttofare diventerà, di equivoco in equivoco, braccio destro del presidente degli Stati Uniti, venendo scambiato per un genio incomparabile. Questo avviene grazie alla capacità di Chance di farsi voler bene dalla gente, grazie al suo innato candore, alla sua tenera propensione per la natura, per ciò che cresce dalla terra, alla sua totale mancanza di ironia, e, soprattutto, grazie alla patologica tendenza della società a proiettare sui semplici la propria brama di risposte complesse. Le sue metafore agricole, nate dalla genuina osservazione del ciclo vitale delle piante, vengono interpretate come profonde allegorie economiche e politiche, un amaro commento sulla superficialità e la vacuità del dibattito pubblico, un’eco delle "nuove vesti dell'imperatore" calate su un uomo che non ha nulla da nascondere perché nulla ha da dichiarare. È la televisione, in particolare, l'elemento chiave di questa ascesa. Il medium che Chance ha sempre e solo passivamente assorbito, diventa il veicolo della sua inattesa celebrità, trasformandolo da semplice spettatore a protagonista involontario, un commento tagliente di Gore Vidal, autore del romanzo originale, sulla potenza manipolatrice della scatola magica negli anni della sua massima espansione.
Farà così amicizia con Ben, influente amico del Presidente degli Stati Uniti, divenendone una sorta di consigliere spirituale. La relazione tra Ben e Chance è una delle gemme del film: Ben, un uomo di potere logorato dalle sue stesse responsabilità, trova in Chance non un guru, ma uno specchio in cui la sua stanchezza e la sua ricerca di autenticità si riflettono senza filtri. È un legame che trascende le convenzioni, un'oasi di incomprensione reciproca che paradossalmente diventa comprensione profonda. La regia di Ashby, maestro nel cogliere le sfumature umane, si sofferma su questi momenti di quiete apparente, carichi di un umorismo sottile e di una malinconia intrinseca.
Alla morte di Ben, mentre alla cerimonia funebre vengono pronunciate le ultime volontà di Ben, Chance verrà distratto da un laghetto. Avvicinatosi camminerà sopra la superficie cristallina dell’acqua con grazia e levità, metafora perfetta di una vita senza doppi sensi, senza grevità morale, una leggerezza dell'essere che sfida le leggi della fisica e del materialismo. Questa scena finale, di una bellezza iconica e di una pregnanza simbolica rara, è stata oggetto di innumerevoli interpretazioni. È un miracolo divino? Un'allucinazione collettiva? Un mero effetto ottico che Chance, nella sua innocenza, non percepisce come tale? O forse, la più radicale delle interpretazioni, è la dimostrazione che Chance è davvero ciò che gli altri hanno proiettato su di lui: un essere superiore, non nel senso di un genio intellettuale, ma di un'anima liberata, al di là delle convenzioni e delle aspettative terrene. L'ambiguità è la sua forza, la sua essenza più profonda. Nel frattempo in sottofondo il monologo di Ben si conclude con la frase “La vita è uno stato mentale”, una chiosa che risuona come un'eco profetica e un'epifania per lo spettatore, suggerendo che la realtà, e la vita stessa, sono plasmate non da fatti oggettivi, ma dalla percezione e dall'interpretazione individuale. E Chance, in tal senso, è l'incarnazione vivente di questa filosofia.
Memorabile, si è detto, l’interpretazione di un Peter Sellers alla sua penultima apparizione prima che un maledetto infarto all’età di cinquantaquattro anni ce lo strappasse per sempre. Questo film, uscito nel 1979, si posiziona come un vertice della New Hollywood, un’epoca d’oro del cinema americano che osava affrontare temi complessi con audacia e originalità. Hal Ashby, con il suo stile sobrio ma incisivo, firma un'opera che, pur muovendosi nel registro della commedia satirica, si rivela un'analisi acuta e disincantata della società contemporanea, della politica e del ruolo dei media. "Oltre il Giardino" non è solo un film; è un'opera per sorridere e per decifrare noi stessi attraverso gli occhi limpidi di una mente semplice dall’infinito candore, un monito atemporale sull'importanza di guardare oltre le apparenze e di riscoprire la purezza in un mondo ossessionato dalla complessità.
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