Bella di Giorno
1967
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Regista
Continua il viaggio di Buñuel nell’alveo del tormentato rapporto spiritualità-corporeità iniziato con Viridiana e qui giunto al suo massimo fulgore ermeneutico. Un’ossessione, quella del maestro aragonese, che attraversa l’intera sua filmografia, dipanandosi tra le pieghe della morale borghese e le pulsioni più recondite dell’animo umano. Laddove Viridiana esplorava la corruzione della santità attraverso l'innocenza votata al martirio, Belle de Jour rovescia il paradigma: qui è la mondanità più algida a cercare una redenzione, o quantomeno un’autenticità, attraverso la trasgressione più audace. È il paradosso della purezza che si macchia per scoprire la propria essenza, un rituale profano che smaschera le ipocrisie del sacro.
Un’opera clamorosa questa perché spezza ogni certezza, ogni tentativo di razionalizzazione, e plasma la figura di una donna in bilico tra realtà e sogno, tra ninfomania e frigidità, tra corpo e spirito. Buñuel, erede e interprete maturo del Surrealismo, non si limita a usare il sogno come espediente narrativo; lo eleva a principio strutturante, dissolvendo i confini tra ciò che è vissuto e ciò che è fantasticato. Le scene oniriche, o quelle dall'ambigua collocazione, non sono meri inserti ma elementi fondanti che svelano le pulsioni represse di Séverine, la sua masochistica ricerca del limite, il suo desiderio di umiliazione e di controllo. Catherine Deneuve, con la sua bellezza ieratica e glaciale, incarna alla perfezione questa dualità: un guscio di porcelana sotto il quale ribollono abissi di desiderio e angoscia, una figura al contempo distante e magneticamente vulnerabile. La sua impassibilità quasi scultorea diventa il veicolo perfetto per esplorare la psiche femminile intrappolata nelle convenzioni, un'anima borghese che trova nel proibito l'unica via per un'insperata, seppur effimera, liberazione.
Tratto da un romanzo di Joseph Kessel del 1929, narra la storia di Séverine Serizy, annoiata moglie di un medico parigino che si prostituisce segretamente in una casa d’appuntamenti con il nome d’arte di Belle de Jour. Ma definire la sua una "prostituzione" è limitante; è piuttosto un esperimento esistenziale, una ricerca di sensazioni estreme che il confortevole ma asfissiante matrimonio borghese non può offrire. Non è mossa da necessità economica, né da pura lussuria, quanto da una profonda inquietudine, un vuoto esistenziale che le convenzioni sociali e l'agiatezza economica hanno scavato in lei. Questa doppia vita non è solo uno stratagemma narrativo, ma una potente metafora della schizofrenia della società, che predica la moralità pubblica mentre indulge nelle più turpi fantasie private.
Tenta così di esorcizzare i suoi fantasmi coscienti ma non riuscirà a trovare un senso nel complicato gioco della vita. Anzi, la sua odissea nel mondo sordido ma al contempo rivelatore della maison close la lascia forse più disillusa, o quantomeno sospesa in un limbo di irresolvibilità. Il finale ambiguo, marchio di fabbrica buñueliano, con il ritorno della carrozza e l'insinuarsi del dubbio tra realtà e allucinazione, è un colpo di genio che preclude ogni facile interpretazione e condanna lo spettatore a confrontarsi con l'insondabile. È il trionfo dell'anti-narrativa tradizionale, un rifiuto di ogni catarsi consolatoria in favore di un'inquietudine persistente.
Fecero scalpore i tagli della censura italiana tra i quali una scena di Severine bambina che rifiuta di fare la Prima Comunione. Questo episodio, apparentemente marginale, è in realtà emblematico del conflitto che attanaglia la protagonista fin dall'infanzia: un rifiuto precoce dell'autorità ecclesiastica e delle sue dottrine repressive, che innesca una ricerca di libertà che si manifesta poi nelle devianze sessuali. La censura, cieca e miope come spesso accade, non colse l'intento artistico, ma vide solo la "profanazione" del sacro, mutilando un tassello fondamentale per la comprensione del travaglio interiore di Séverine.
I numerosi tagli della censura deturparono l’opera a tal punto che, quando uscì una versione restaurata, si ebbe l’impressione di assistere ad un’opera del tutto nuova. Una rivelazione per chi aveva conosciuto solo la versione edulcorata, che confermava la genialità di Buñuel nel tessere una rete di simboli e provocazioni, la cui integrità era vitale per la piena risonanza dell'opera. Il ripristino delle scene censurate non fu solo una questione di completezza, ma una vera e propria riscoperta dell'audacia e della coerenza tematica di un film che si proponeva di scardinare le convenzioni non solo sociali, ma anche cinematografiche.
Una delle tante scene che si ricordano: Belle guarda da uno spioncino un Professore, cliente del bordello, che si fa brutalizzare da Charlotte, una prostituta collega di Belle, dopo che quest’ultima era stata mandata via perchè non eccessivamente aggressiva. Questa scena è un microcosmo del film: Séverine, la frigida e controllata borghese, diventa voyeur della propria stessa fantasia, incapace di agire direttamente ma morbosamente attratta dalla brutalità e dalla sottomissione. È la personificazione del suo desiderio inconscio di superare i propri limiti, di esplorare il masochismo che si cela dietro la sua apparente compostezza. La violenza esplicita di Charlotte è lo specchio distorto di un bisogno che Séverine non sa, o non vuole, ancora soddisfare, ma che la attira irresistibilmente come una falena verso una fiamma proibita. È un momento di pura e quasi clinica osservazione della perversione, in cui la distanza tra spettatore e personaggio si annulla, e noi, con Séverine, ci troviamo a fissare l'abisso.
Un’opera maledetta, si è detto, ma che al contrario risulta di una profondità ambigua e sconcertante, di un fascino torbido e morboso. È un capolavoro che continua a interrogare il pubblico sulla natura della sessualità, del desiderio, del conformismo e della liberazione, dimostrando l'inevitabile intreccio tra le pulsioni più primordiali e le sovrastrutture sociali. Belle de Jour non offre risposte, ma pone domande cruciali, lasciando lo spettatore in uno stato di perenne interrogazione, una condizione che Buñuel amava infliggere, per stimolare il pensiero oltre la confortevole illusione della realtà. La sua modernità risiede proprio in questa irresolutezza, in questo rifiuto di categorizzare l'umano, celebrando la sua intrinseca, affascinante e spesso spaventosa ambiguità.
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