I Soliti Ignoti
1958
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Regista
Un’opera che dopo oltre 50 anni conserva tutto il suo fascino di fedele spaccato del sottobosco di varia umanità che in qualche modo tentava di stare a galla e di sbarcare il lunario. Non è solo un ritratto, ma un affresco vivente di un’Italia post-bellica, un crocevia di miserie, sogni infranti e una resilienza buffa, quasi involontaria, che si traduce nell’arte di arrangiarsi. Questo "sottobosco" non è quello glorificato del Neorealismo più puro, ma una sua deviazione geniale, un "neorealismo rosa" che non rifugge la durezza della vita, ma la irride con un sorriso amaro, quasi a voler esorcizzare la fame e l'incertezza con la leggerezza della risata. La disoccupazione, la povertà endemica, il miraggio di un benessere che sembra sempre a portata di mano ma mai afferrabile, trovano qui una rappresentazione che travalica il mero documentarismo per elevarsi a universale parabola umana.
Un Monicelli sopraffino tratteggia un manipolo di personaggi che paiono sputati fuori da una novella di Boccaccio, ma che portano addosso i segni inequivocabili della Roma popolare, con le sue cadenze, i suoi tic, le sue ingenue furbizie. La sua maestria non si limita alla direzione attoriale, ma si estende a una scrittura capace di infondere dignità e commovente patetismo anche nelle figure più marginali o caricaturali. Questa galleria di "eroi per caso" o, meglio, di "anti-eroi per necessità", è un omaggio alla commedia dell’arte, ma con una sensibilità profondamente moderna e una vena di malinconia che è la firma distintiva della commedia all'italiana di cui il film è pietra angolare.
C’è Peppe, il pugile balbuziente interpretato da Gassman, una rivelazione assoluta. Gassman, l’attore dal portamento nobile e dalla dizione impeccabile, si trasfigura qui in una maschera grottesca e irresistibilmente comica, anticipando di anni la sua stessa metamorfosi nel Brancaleone di Monicelli. La sua balbuzie non è un semplice espediente comico, ma il sintomo di una vulnerabilità, di un’incapacità di esprimersi pienamente in un mondo che non lo comprende. C’è Tiberio (Mastroianni) alle prese con i suoi guai familiari, un uomo comune stanco e disilluso, la cui figura riflette la quotidianità di tanti italiani, un prototipo del borghese piccolo-piccolo che sarà il marchio di fabbrica di molti suoi personaggi futuri. E poi c’è il capobanda bislacco e imprevedibile che è Totò naturalmente, il cui Capanelle, pur apparendo per un tempo limitato, lascia un segno indelebile. Totò non è qui il principe della risata istrionico e debordante, ma un maestro di vita al limite della follia, una figura quasi shakespeariana nella sua saggezza lunare e disincantata, che traghetta la comicità partenopea verso nuove sponde, mostrando una capacità di recitazione sottile e commovente. L’ensemble, arricchito da un’indimenticabile Carla Gravina, dalla vitalità di Memmo Carotenuto e dal sornione Carlo Pisacane (Capannelle), è un vero e proprio coro polifonico della disperazione mascherata da leggerezza.
Insieme lavoreranno al colpo della vita: rapinare il Banco dei Pegni sfondando un tramezzo di una casa confinante. Ma la rapina, più che un atto criminale audace, si rivela fin da subito una farsa tragicomica, un pasticcio orchestrato da dilettanti allo sbaraglio. L'intero piano è un rovesciamento parodico dei sofisticati "caper movie" americani: qui non ci sono menti geniali o tecnologie avanzate, ma solo un ammasso di sfortunati e inetti, armati più di buona volontà che di abilità. La loro inesperienza, la loro congenita sfortuna, e la loro stessa umanità li condannano al fallimento ancor prima di iniziare, trasformando la suspense tipica del genere in un’irresistibile catena di equivoci e disastri. La genialità sta proprio nel sovvertire le aspettative, nel trasformare l'epos del crimine in un'ode all'inefficienza e alla goffaggine.
Una lezione di comicità trasfusa nel vissuto contaminato da cialtroneria e balordaggine. Non è la comicità di pancia, ma quella che nasce dall'osservazione acuta delle dinamiche sociali, dalla capacità di Monicelli di cogliere l'assurdo nel quotidiano e il patetico nel farsesco. È una risata che spesso strozza un poco il fiato, perché dietro la buffoneria si intravede sempre la dura realtà della sopravvivenza.
Godibile, spassoso, irriverente, tangibile come un romanzo di Verga, per l'aderenza a un realismo crudo e la celebrazione degli "ultimi", dei "vinti" della società, che qui, a differenza dei personaggi verghiani, non soccombono ma si aggrappano con unghie e denti alla vita, inventando nuove strategie di sussistenza. È cialtrone come un racconto del Folengo, per la sua capacità di mescolare il sublime e il grottesco, il linguaggio colto e quello vernacolare, in una "maccheronica" cinematografica che è puro genio. La sua influenza è stata così profonda da definire un intero filone cinematografico: è il Big Bang della commedia all’italiana, che qui trova la sua forma più pura e la sua impronta stilistica inconfondibile, aprendo la strada a decenni di capolavori che sapranno ridere delle miserie umane senza mai dimenticarne la dignità intrinseca.
La grandezza di Monicelli sta nel creare compartecipazione e pathos attraverso un intercalare di scene di vita quotidiana, di gesti semplici, di dialoghi che sembrano rubati alla strada. Non c’è nulla di forzato, ogni espressione, ogni sguardo, ogni pausa, contribuisce a costruire un ritratto autentico e vibrante. La sua è una poetica delle piccole cose, un inno alla resilienza del popolo italiano, alla sua capacità di trovare un barlume di gioia anche nella più desolata delle condizioni. Questo si manifesta in modo esemplare nella scena perfetta in cui la banda, non trovando nulla da rubare, si accontenta di un piatto di pastasciutta fermando bruscamente la tensione e creando un’oasi temporanea di ristoro e pace. Questa sequenza, apparentemente un semplice diversivo, è in realtà il cuore pulsante del film, un manifesto della sua filosofia. L'atto di condividere il cibo, simbolo primario di nutrimento e di convivialità, diventa un rito laico di comunione, quasi una piccola cena dell'ultima speranza. In quel momento, la fame fisica prevale sulla brama di ricchezza, e l'ingenuo desiderio di una vita migliore si condensa nel gesto archetipico del nutrimento. È un'immagine potente, che contrappone la futilità della rapina fallita alla concretezza rassicurante della sopravvivenza, sintetizzando l'anima più profonda di un cinema che sa essere universale pur rimanendo saldamente radicato nella sua specificità italiana. È qui che il fallimento si trasforma in una sorta di vittoria morale, o almeno in una tregua, un breve momento di armonia tra perdenti, ricordandoci che la vera ricchezza, a volte, risiede semplicemente in un piatto caldo e nella compagnia.
Un nodo imprescindibile del nostro cinema con cui fare i conti, una bussola per comprendere non solo un genere ma un'intera nazione, le sue fragilità e la sua irresistibile vitalità. "I Soliti Ignoti" non è solo un film, ma un mito fondativo, un classico senza tempo che continua a parlarci della nostra identità più profonda, un capolavoro che ha ridefinito i confini della comicità, elevandola a strumento di profonda analisi sociale e umana.
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