Blow Up
1966
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Regista
Il dettaglio viene alla luce nella camera oscura… lentamente. Un processo quasi alchemico, dove il buio e le soluzioni chimiche operano una magia che trascende la mera fissazione della luce, trasformandola in rivelazione, o forse in inganno.
E il fotografo si rende conto che nello scatto c’è la prova di un omicidio. Un fotogramma apparentemente innocuo, un'istantanea di un parco londinese, si disvela sotto la lente d'ingrandimento come un geroglifico contemporaneo, nascondendo tra le sue sfumature la violenza e il mistero.
Inizierà una personale indagine tenendo come punto di partenza quella lastra impressionata. Non è una semplice indagine poliziesca, l'eco di un noir si dissolve rapidamente, lasciando il posto a un viaggio molto più introspettivo e vertiginoso. Thomas, il protagonista, non è un detective ma un artista, un demiurgo della percezione, il che rende il suo percorso da subito una riflessione sulla natura stessa dell'immagine e della verità.
Ben presto comincerà a dubitare dello stesso tessuto del Reale, come se quella foto avesse aperto una porta verso una zona inesplorata dove materia e sogno sono indistinguibili. L'iniziale certezza della "prova" si corrode sotto il peso dell'analisi, ogni ingrandimento, ogni sgranatura, aggiungendo non chiarezza ma ambiguità, stratificando l'ignoto. È il microscopio puntato non sull'evento, ma sulla percezione stessa. La realtà, prima data per scontata, si rivela un costrutto fragile, permeabile alle illusioni ottiche e cognitive, una tela troppo sottile per reggere il peso della sua stessa presunta oggettività. È il classico dilemma epistemologico che ha tormentato filosofi e artisti, qui tradotto in una forma visiva bruciante e immediata.
La storia di Blow Up, ambientato in una Londra in piena rivoluzione beat, si dipana da questo accadimento casuale. Ma "Swinging London" non è un mero fondale; è un personaggio, un catalizzatore, un'entità pulsante di energia e di vacua superficialità che Antonioni cattura con una precisione quasi etnografica. Thomas, interpretato con un'ambiguità ipnotica da David Hemmings, è il perfetto archetipo del disincanto che permea questa metropoli effervescente: un fotografo di moda di successo, circondato da bellezze efemere (tra cui una giovanissima Jane Birkin e la leggendaria Veruschka), immerso in un vortice di edonismo e sesso casuale. La sua vita, inizialmente dominata da un cinismo distaccato e una ricerca incessante di stimoli esterni, riflette il glamour patinato e l'alienazione intrinseca di un'epoca che celebrava la libertà formale ma soffriva di una profonda crisi di significato. Il colore vivido, la musica psichedelica degli Yardbirds, l'audacia estetica di questa Londra pop non sono solo stile, ma una metafora della distrazione, del rumore di fondo che impedisce di cogliere la dissonanza sottostante, la verità elusiva.
L’indagine che Thomas condurrà si trasformerà gradualmente da ansia per la verità a dubbio permanente, un continuo stato di indeterminatezza dove la verità da stabilire non è più se una persona sia stata uccisa ma se la realtà stessa sia un concetto inamovibile oppure se in qualche modo sia stata contaminata dalle illusioni della mente. Il film, liberamente ispirato al racconto "Las babas del diablo" di Julio Cortázar – che pure esplora le ambiguità della fotografia e della percezione – eleva il mistero a un livello ontologico. Il corpo che svanisce, la pistola che non c'è più, l'assenza di qualsiasi prova tangibile non sono difetti della trama, ma scelte narrative radicali che riflettono la tesi centrale: la realtà oggettiva è un miraggio, un'illusione collettiva. Thomas, l'uomo che cattura e fissa l'immagine, si trova ironicamente impotente di fronte alla sua fluidità. È il dramma esistenziale dell'uomo contemporaneo, perduto in un labirinto di segni senza significati ancorati.
Paradigmatica in questo senso è la deliziosa scena della partita a tennis tra mimi: Thomas sta vagabondando in un Parco pubblico quando una comitiva di ragazzi truccati da mimi inizia una partita di tennis senza racchette nè pallina. Il gesto, la pantomima, la sonorizzazione acustica del nulla, creano una realtà parallela, eppure incredibilmente convincente. Thomas dapprima divertito e quasi sarcastico con il passare dei minuti cadrà nella finzione andando a raccogliere una pallina invisibile e rilanciandola ai contendenti (ma si tratta proprio di finzione oppure è la realtà denudata di ogni artificio cognitivo?). Questo è il cuore pulsante del film, una scena che trascende la mera allegoria per diventare un esperimento sulla percezione. Il rumore della pallina invisibile, il suono che Thomas sente e che noi, spettatori, siamo indotti a sentire, è il colpo finale alla nostra fiducia nella realtà. È il momento in cui il velo di Maya si squarcia, e Thomas non è più un osservatore distaccato ma un partecipante attivo all'assurdo. È un grido di liberazione e al contempo un lamento sulla perdita di ogni punto di riferimento, una sublime espressione del Teatro dell'Assurdo trasportata sul grande schermo. Il suo gesto di raccogliere la palla invisibile non è un segno di follia, ma di accettazione, una resa all'ineluttabile fluidità dell'esistenza.
Michelangelo Antonioni firma una delle opere più affascinanti della sua filmografia, il suo primo lungometraggio in lingua inglese, un'audace esplorazione di temi già presenti nella sua celebre "trilogia dell'incomunicabilità" (L'Avventura, La Notte, L'Eclisse) ma qui amplificati e contestualizzati in un'estetica visiva vibrante e pop. Il suo stile, fatto di lunghi silenzi, di inquadrature che indugiano sui volti e sugli spazi, e di una narrazione ellittica che predilige il non detto, si sposa perfettamente con l'argomento. Antonioni non offre risposte, ma pone domande, lasciando lo spettatore in uno stato di perenne interrogazione. La sua regia non è descrittiva, ma interrogativa, spingendo la macchina da presa non a svelare, ma a interrogare il mondo.
Un’opera in cui la forza semiotica dell’immagine (sintomatico in questo caso che il protagonista sia un fotografo) emerge devastante superando qualsiasi tentativo dialettico di raggiungere la conoscenza ultima. Blow Up non è un film su un omicidio, ma sull'impossibilità di sapere, sull'inafferrabilità del reale, sulla disillusione dell'occhio umano e della macchina fotografica. L'immagine, da strumento di rivelazione, diventa metafora dell'ambiguità stessa della condizione umana. Un capolavoro che continua a interrogarci, a quasi sessant'anni dalla sua uscita, sulla fragilità della verità e sull'eterno gioco tra ciò che vediamo e ciò che è.
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