Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Caro diario

1993

Vota questo film

Media: 4.33 / 5

(3 voti)

Un film può essere un'equazione, un teorema, una narrazione tesa tra un punto A e un punto B. Oppure, può essere una passeggiata. Un vagabondaggio. Una deriva. Caro diario è la più sublime, intelligente e commovente delle derive cinematografiche, un'opera che rifiuta la tirannia della trama per abbracciare la forma erratica e associativa del pensiero, del taccuino di appunti, del sogno a occhi aperti. Nanni Moretti, nel 1993, compie un atto di sincerità disarmante e di audacia formale quasi senza precedenti nel cinema italiano mainstream: filma il proprio zibaldone interiore, trasformando la sua nevrosi, le sue ossessioni e la sua vulnerabilità in un saggio cinematografico che ha la leggerezza di una gita in Vespa e la profondità di un trattato esistenziale.

Il film è un trittico, una struttura che evoca più un polittico rinascimentale che una sceneggiatura classica. Tre pannelli autonomi ma legati da un filo invisibile: lo sguardo del suo autore. Il primo capitolo, "In Vespa", è la quintessenza della flânerie baudelairiana trasposta nella Roma deserta e metafisica d'agosto. Moretti, in sella al suo scooter blu, diventa un esploratore urbano, un cartografo sentimentale che mappa una città svuotata dei suoi abitanti ma ricolma di fantasmi e significati. Non è la Roma caotica e felliniana, né quella monumentale e inarrivabile della grande bellezza. È una Roma suburbana, fatta di palazzine anonime, di architetture moderniste che Moretti commenta con la pignoleria di un critico d'arte improvvisato. La sua deriva non è casuale; è una ricerca di senso nel paesaggio quotidiano. In questo peregrinare, Moretti diventa il sismografo della cultura del suo tempo. La celebre sequenza in cui stronca, con foga quasi fisica, il film Henry, pioggia di sangue, non è semplice cinefilia; è una dichiarazione etica. È l'urlo di un umanista contro la fascinazione per il male fine a se stesso, la difesa di un cinema (e di un mondo) che non rinunci alla complessità, alla compassione. La sua Vespa è un destriero moderno, un prolungamento del suo corpo e del suo pensiero, che lo conduce in un pellegrinaggio laico e commovente verso l'Idroscalo di Ostia, sul luogo dell'assassinio di Pasolini. Lì, nel silenzio di quel non-luogo, il cinema di Moretti si connette idealmente al suo più grande maestro irregolare, l'intellettuale corsaro che, come lui, usava il cinema e la scrittura per auscultare le fratture della società italiana.

Il secondo pannello, "Isole", sposta l'asse dalla città all'arcipelago, dal monologo interiore al dialogo impossibile. Il viaggio alle Eolie con l'amico Gerardo, un accademico monomaniaco e teledipendente, è una delle più spietate e divertenti satire sull'incomunicabilità nell'era della comunicazione di massa. Moretti cerca il silenzio, la bellezza primordiale della natura, un'isola senza distrazioni. Gerardo, invece, è un'antenna umana che capta solo il segnale televisivo, ossessionato da soap opere come Beautiful. L'odissea da Lipari a Salina, da Stromboli a Panarea e Alicudi è un crescendo di frustrazione comica che mette a nudo due patologie della contemporaneità: da un lato, l'intellettuale che fugge dal mondo e idealizza un'autenticità forse inesistente; dall'altro, l'uomo moderno la cui percezione della realtà è completamente mediata e sostituita dalla finzione seriale. Moretti non si pone su un piedistallo; la sua irritazione verso l'amico è anche auto-ironia sulla propria pretesa di purezza intellettuale. La scena del sindaco di Stromboli, interpretato da un magnifico Giulio Base, che governa un'isola vulcanica con la mentalità di un assessore di provincia, è un piccolo capolavoro di surrealismo burocratico. L'episodio è una riflessione sul nostro bisogno di narrazioni: c'è chi le cerca nei libri e nel paesaggio, e chi le trova nel volto di Ridge Forrester. La desolazione finale di Alicudi, isola senza televisione e senza Gerardo, suggerisce amaramente che la solitudine tanto agognata può essere altrettanto vuota.

È con il terzo capitolo, "Medici", che il film trascende la cronaca personale per toccare le corde dell'universale. Qui, la deriva non è più geografica ma corporea, un viaggio all'interno del proprio organismo malato. Moretti ricostruisce, con un distacco che è la forma più alta di pudore, la sua reale odissea medica alla ricerca di una diagnosi per un prurito insopportabile e altri sintomi allarmanti. Il capitolo è un pezzo di cinema quasi kafkiano, un'immersione nell'assurdo di un sistema sanitario che moltiplica esami, consulti e diagnosi astruse (dermatologiche, allergologiche, reumatologiche) senza mai arrivare al cuore del problema. Moretti, armato della sua agenda e di una lucidità quasi scientifica, si trasforma in un detective del proprio male, annotando scrupolosamente le prescrizioni contraddittorie e le sentenze superficiali di luminari della medicina. La telecamera non indulge mai nel patetismo; al contrario, adotta uno sguardo ironico, quasi da commedia nera, che rende l'esperienza ancora più agghiacciante. Il linguaggio medico, astruso e disumanizzante, viene messo a nudo nella sua impotenza. La rivelazione finale – un linfoma di Hodgkin, curabilissimo se diagnosticato in tempo – non è presentata come un climax drammatico, ma con la secca constatazione di un'enciclopedia medica. Il film si chiude con Moretti che beve un bicchiere d'acqua, un gesto semplice, quotidiano, che assume il valore di una rinascita. Questo finale, così sommesso e potente, eleva "Caro diario" al rango di capolavoro: dopo aver vagato per la città e per le isole, il vero viaggio era dentro di sé, un confronto con la propria mortalità che ridefinisce il senso di ogni passeggiata in Vespa sotto il sole d'agosto.

In un certo senso, Caro diario può essere visto come l'equivalente cinematografico del Libro dell'inquietudine di Fernando Pessoa. Come l'eteronimo Bernardo Soares, Moretti è un "aiuto contabile nella città di Lisbona" dell'anima, che registra frammenti di vita, sensazioni, giudizi estetici e morali senza la pretesa di costruire un sistema, ma con la consapevolezza che è proprio in questa frammentarietà che risiede la verità dell'esistenza. La sua démarche ricorda quella dei grandi saggisti-cineasti come Chris Marker in Sans Soleil, capaci di tessere riflessioni filosofiche, memorie personali e immagini del mondo in un arazzo unico e personalissimo. Ma a differenza della malinconia cosmopolita di Marker, quella di Moretti è radicata in un contesto squisitamente italiano, quello degli anni '90, un'epoca di transizione segnata dalla fine della Prima Repubblica e dall'alba dell'impero mediatico berlusconiano, di cui la "gerardizzazione" della cultura è un sintomo premonitore.

Caro diario è un film che respira. Non ha l'affanno della narrazione a tutti i costi; si prende il tempo di osservare una facciata, di ascoltare una canzone (la colonna sonora, da Angélique Kidjo a Caetano Veloso, è un personaggio a sé), di seguire un pensiero fino alla sua conclusione agrodolce. È il manifesto di un cinema che non ha paura di essere personale, perché sa che nel racconto onesto e intelligente di un io si può trovare il riflesso di un noi. È un autoritratto che, come quello di Rembrandt, non nasconde le rughe e le fragilità, ma anzi ne fa il proprio punto di forza. Un'opera che ci insegna che a volte, per capirci qualcosa del mondo e di noi stessi, non serve una mappa, ma solo una Vespa, un quaderno e il coraggio di perdersi.

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7

Commenti

Loading comments...