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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Casco d'Oro

1952

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Un'aria da scampagnata impressionista, la luce che filtra tra le fronde e danza sull'acqua della Marna, fisarmoniche che tessono melodie spensierate. L'incipit di Casco d'Oro è un'illusione pastorale, un frammento di un mondo che Jacques Becker sembra aver distillato direttamente dal DNA cinematografico del suo maestro, Jean Renoir. Potrebbe essere una scena tagliata da Une partie de campagne, con la stessa sensualità latente, la stessa celebrazione di una gioia effimera e proletaria. Ma sotto questa superficie di placida convivialità, il veleno circola già. Bastano pochi sguardi, un gesto possessivo del boss Roland (William Sabatier) sulla sua donna, Marie (Simone Signoret), per avvertirci che questo Eden fluviale è costruito su un terreno franoso, destinato a essere inghiottito dalla violenza e dal fato.

È in questo fragile equilibrio che si manifesta l'incontro destinato a scatenare la tragedia: quello tra Marie, il "Casco d'Oro" la cui chioma bionda è un faro di ribellione e desiderio, e Georges Manda (Serge Reggiani), un ex-galeotto, ora onesto carpentiere dal passato turbolento. Il loro è un colpo di fulmine che ha la gravità di una collisione stellare, un riconoscimento istantaneo di anime affini che manda in cortocircuito i codici d'onore della malavita parigina, gli "Apaches" della Belle Époque. Becker orchestra questo momento con una maestria sublime, affidando tutto al non detto, a un ballo che è più un duello di sguardi, una silenziosa dichiarazione di appartenenza che sigilla un patto di morte prima ancora che d'amore. La chimica tra Signoret e Reggiani è di una purezza quasi spaventosa; non recitano, sono. Lei, con la sua bellezza non convenzionale, terrena, la sua postura fiera e una sensualità che emana da ogni poro, non è una femme fatale da noir americano, calcolatrice e manipolatrice. È una forza della natura, un'eroina zoliana la cui passione è l'unica bussola, un assoluto che non ammette compromessi. Lui, con il suo volto malinconico e la sua quiete quasi ieratica, incarna un archetipo di mascolinità antitetico a quello guascone e violento dei suoi vecchi compari: è l'uomo che costruisce, non che distrugge, un eroe working class che anela a una normalità negatagli dal destino.

Il film è una creatura bicefala, un ibrido miracoloso. Da un lato, è la cronaca meticolosa e quasi documentaristica di un milieu criminale specifico, quello degli Apaches che terrorizzavano la Parigi di inizio secolo. Becker, da antropologo del cinema, ricostruisce questo mondo con una precisione maniacale, dall'abbigliamento (i cappelli a bombetta, i pantaloni a zampa, i foulard) all'uso dell'argot, il gergo della mala. È un universo maschile, tribale, regolato da leggi non scritte di lealtà e tradimento, dove la violenza esplode improvvisa e sgraziata, senza alcuna coreografia estetizzante. Il duello al coltello tra Manda e Roland non ha nulla dell'epica di un western o di un cappa e spada; è una zuffa disperata, goffa, terribilmente reale, dove i corpi si scontrano e il sangue macchia i vestiti in modo indelebile. In questo, Becker anticipa la brutalità disadorna che diventerà un marchio di fabbrica per cineasti come Melville o, decenni dopo, Scorsese.

Dall'altro lato, e questo è il cuore pulsante dell'opera, Casco d'Oro è una delle storie d'amore più pure e disperate mai portate sullo schermo. Una volta che l'amore tra Marie e Manda sboccia, il film abbandona temporaneamente le strade sordide di Belleville per rifugiarsi in un idillio campestre, una parentesi di felicità assoluta che sappiamo essere condannata. In queste scene, Becker torna a essere il discepolo di Renoir, catturando la luce, i gesti minimi, la beatitudine di una quotidianità condivisa. Ma è una felicità fragile, assediata dal mondo esterno. La tragedia non nasce da un difetto intrinseco del loro amore, ma dalla sua stessa perfezione, che agisce come un corpo estraneo in un organismo sociale corrotto, provocando una reazione di rigetto violenta. Il vero antagonista non è tanto il boss rivale Félix Leca (un magnifico e viscido Claude Dauphin), quanto il codice stesso della malavita, un sistema di valori distorto che non può tollerare un'autenticità così radicale. L'amore di Marie e Manda è un atto di secessione, una dichiarazione di indipendenza dal branco, e per questo imperdonabile.

La struttura narrativa del film è quella di una tragedia greca trapiantata nei bassifondi parigini. Ogni passo verso la felicità è un passo verso la rovina. Leca, figura mefistofelica che tesse la sua tela con pazienza diabolica, non fa che accelerare un processo già innescato. Manipola gli eventi, sfrutta le debolezze e il senso dell'onore di Manda, trasformando l'amico Raymond in un'esca e un capro espiatorio. La discesa agli inferi di Manda è inesorabile, una caduta scandita da scelte che, pur essendo moralmente giuste dal suo punto di vista (difendere l'amico, vendicare il tradimento), lo intrappolano sempre di più. La sua decisione finale di consegnarsi alla polizia, accettando la ghigliottina per un crimine non commesso pur di salvare l'amico innocente e, in un certo senso, per onorare il suo amore per Marie, non è un atto di resa. È l'apice del suo eroismo romantico, una scelta consapevole che lo eleva al di sopra della meschinità del mondo che lo ha condannato. È Achille che sceglie una vita breve e gloriosa, un martire laico la cui unica fede è stata la passione per una donna.

All'uscita, nel 1952, il film fu un insuccesso commerciale e divise la critica francese, che lo giudicò troppo cupo, quasi immorale nella sua rappresentazione cruda della malavita e nella sua esaltazione di un amore déclassé. Fu la critica straniera, e in particolare quella britannica, a riconoscerne subito la grandezza, eleggendo Simone Signoret a icona internazionale. Con il tempo, Casco d'Oro è stato universalmente riabilitato come il capolavoro assoluto di Becker, un film la cui influenza si estende ben oltre i confini del polar francese. Si può vedere la sua ombra nel fatalismo romantico di certo cinema di François Truffaut, che ammirava Becker smisuratamente, o nella rappresentazione di mondi criminali come comunità chiuse e ritualistiche.

Ma ciò che rende Casco d'Oro un'opera immortale, un gioiello incastonato per sempre nel canone, è la sua capacità di trascendere il genere e il contesto storico per toccare una verità universale. È un film sulla memoria e sul rimpianto. L'inquadratura finale, con Marie alla finestra che osserva la strada vuota dove Manda è stato portato via, mentre in sovrimpressione riappare l'immagine del loro primo ballo, è un colpo al cuore di una potenza devastante. Il passato, quel breve, incandescente momento di felicità, diventa un fantasma che infesta il presente. L'amore non è stato sconfitto dalla morte; è stato trasfigurato in un ricordo eterno, un paradiso perduto la cui luce illumina e allo stesso tempo tortura chi è rimasto. In quel singolo, straziante momento, Jacques Becker non si limita a concludere un film: scolpisce un'elegia perfetta sulla bellezza e la crudeltà del destino, lasciandoci con la consapevolezza agrodolce che alcuni istanti di perfezione valgono il prezzo di una vita intera.

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