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Città Dolente

1989

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Città Dolente è un'opera di una bellezza austera e di una potenza sommessa, un requiem per un'intera nazione e per le sue memorie a lungo taciute. Il maestro taiwanese Hou Hsiao-Hsien, con questo suo capolavoro, compie un atto di coraggio politico e di maestria cinematografica quasi senza precedenti: è il primo film a rompere un tabù durato quarant'anni, affrontando direttamente il trauma fondativo della Taiwan moderna, l'Incidente del 28 febbraio 1947 e il successivo "Terrore Bianco". Ma lo fa con un linguaggio che è l'antitesi della denuncia urlata. La sua è una cronaca sussurrata, un'elegia che trova l'orrore della Storia non nelle immagini di violenza, ma nei vuoti che essa lascia, nelle stanze silenziose e nei destini spezzati di una famiglia.

La storia si svolge in un periodo storico tanto complesso quanto cruciale, tra il 1945 e il 1949. Finita la Seconda Guerra Mondiale e i cinquant'anni di occupazione giapponese, l'isola di Taiwan viene "riconquistata" e consegnata al governo nazionalista cinese del Kuomintang di Chiang Kai-shek. Quella che avrebbe dovuto essere una liberazione si trasforma rapidamente in una nuova, e per certi versi più brutale, forma di colonizzazione. Il film racconta questo periodo di transizione caotica attraverso le dolorose vicende della famiglia Lin, il cui destino diventa un microcosmo e un'allegoria del destino dell'intera nazione. I quattro fratelli Lin incarnano le diverse, tragiche traiettorie di un popolo intrappolato tra due imperi. Il primogenito, Wen-heung, è il tradizionalista, il proprietario di un bar che cerca di mantenere un equilibrio ma finisce schiacciato dalla corruzione e dalla violenza dei nuovi arrivati. Il terzogenito è un fantasma, disperso in guerra nelle Filippine. Il secondo, traumatizzato dalla guerra, si lega alla malavita di Shanghai e viene ridotto alla follia.

E poi c'è il quarto e più giovane fratello, Wen-ching, interpretato da un giovanissimo e già immenso Tony Leung. È lui il cuore e la coscienza del film. Fotografo di professione, è sordo e muto a causa di un incidente infantile. La sua condizione non è un vezzo melodrammatico, ma la metafora centrale e più potente dell'opera. Wen-ching è la voce stessa di Taiwan durante il Terrore Bianco: una voce a cui è stato impedito di parlare, di denunciare, di raccontare la propria verità. Può solo osservare, testimoniare in silenzio. La sua comunicazione avviene tramite la scrittura, e Hou Hsiao-Hsien, con un gesto geniale, sceglie di mostrarci i suoi dialoghi attraverso delle didascalie, usando una tecnica del cinema muto per dare corpo a una voce che è stata messa a tacere.

Le analogie con il cinema giapponese del dopoguerra sono inevitabili, ma è soprattutto con il maestro Yasujirō Ozu che il cinema di Hou Hsiao-Hsien intrattiene il dialogo più profondo. Città Dolente è, per molti versi, un film di Ozu gettato nel calderone della tragedia storica. Ritroviamo la stessa estetica contemplativa: la macchina da presa prevalentemente statica, le inquadrature composte con un rigore pittorico, l'uso di campi lunghi che incorniciano i personaggi all'interno del loro ambiente e una profonda attenzione alla vita familiare. Ma dove Ozu usava questo stile per catturare le malinconiche trasformazioni della famiglia giapponese nel dopoguerra, Hou lo usa per creare una tensione quasi insopportabile tra la quiete della vita quotidiana e la violenza della Storia che si agita appena fuori campo. Se si vuole azzardare un parallelo più insolito, per la sua ambizione di raccontare il crollo di un mondo attraverso le vicende di una singola famiglia, si potrebbe pensare a Luchino Visconti. Come ne Il Gattopardo o in Senso, anche qui la grande Storia irrompe e devasta le vite private, ma lo fa con uno stile che è l'antitesi dell'opulenza operistica viscontiana.

È proprio nell'estetica che risiede l'importanza capitale di questo film. Hou Hsiao-Hsien è un maestro della distanza e dell'ellissi. Rifiuta i codici del dramma hollywoodiano. Non usa primi piani per manipolare l'emozione dello spettatore, non ci sono scene madri, non c'è una colonna sonora invasiva. La sua macchina da presa si posiziona spesso a distanza, osservando i personaggi attraverso porte o finestre, come un testimone discreto e rispettoso. L'orrore, come l'Incidente del 28 febbraio, non viene mai mostrato direttamente. Ne percepiamo le conseguenze: le sparizioni improvvise, le conversazioni sussurrate, il terrore che cala sulla comunità. Hou capisce che mostrare la violenza è spesso meno potente che suggerirla, che lasciare l'orrore all'immaginazione dello spettatore è un atto di rispetto sia verso le vittime che verso il pubblico.

Questo film non è stato solo un evento artistico, ma un terremoto politico e sociale. Vincendo il Leone d'Oro al Festival di Venezia del 1989—primo film taiwanese a ricevere un premio così prestigioso—, Città Dolente ottenne una visibilità e una legittimazione internazionale che resero impossibile continuare a ignorare la storia che raccontava. Ha di fatto aperto la porta a un dibattito nazionale su un periodo che era stato cancellato dalla storiografia ufficiale del Kuomintang. È un'opera che ha letteralmente aiutato una nazione a recuperare la propria memoria. Città Dolente è un film che ci insegna che la Storia non è fatta solo dai grandi eventi, ma dalle piccole vite che vengono travolte, e che a volte il silenzio, quando osservato con la giusta attenzione, può raccontare più cose di qualsiasi urlo. Per il suo coraggio politico, per il suo rigore formale e per la sua profonda, dolente umanità, è un'opera il cui retrogusto permane a lungo in bocca, come una foglia di menta in una calda serata estiva.

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