Close Up
1990
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Regista
Partendo da un bizzarro fatto di cronaca, Kiarostami costruisce un labirinto di specchi, un puzzle filosofico che interroga la natura della verità, dell'identità e del nostro disperato bisogno di essere visti. È un film che non si guarda, ma a cui si partecipa, un'esperienza che ci lascia con più domande che risposte, e proprio in questa sua generosa incertezza risiede la sua grandezza. È, senza mezzi termini, uno dei gesti cinematografici più intelligenti e profondamente umani mai concepiti.
La storia, nella sua essenza, è quasi surreale. Un uomo di nome Hossein Sabzian, un cinefilo disoccupato e appassionato, si spaccia per il celebre regista iraniano Mohsen Makhmalbaf. Con questa falsa identità, si ingrazia i membri di una colta famiglia borghese di Teheran, gli Ahankhah, promettendo loro un ruolo nel suo prossimo film, basato proprio sulla loro vita e sulla loro casa. L'inganno, inevitabilmente, viene scoperto, e Sabzian viene arrestato per frode. A questo punto, Kiarostami non sceglie di romanzare la vicenda, ma compie un balzo meta-testuale di una audacia sbalorditiva: convince tutte le persone reali coinvolte—l'impostore Sabzian, la famiglia Ahankhah, il regista Makhmalbaf, e persino il giudice—a partecipare al film interpretando se stessi, in una rievocazione che è al contempo una messa in scena e un processo di elaborazione.
Ci troviamo così catapultati in un territorio puramente pirandelliano. Il film diventa un vero e proprio Sei personaggi in cerca d'autore filmato, dove i protagonisti di un dramma reale sono chiamati a rimettere in scena la loro storia, non per un pubblico, ma per se stessi, alla ricerca di una verità che non è più quella fattuale, ma quella emotiva e psicologica. Il tribunale, con la benedizione di Kiarostami che ottiene il permesso di filmare, si trasforma in un palcoscenico. Sabzian non è più solo un imputato, ma un attore che finalmente ha un pubblico, un'occasione per spiegare il "perché" del suo gesto. La sua non è la difesa di un criminale, ma la confessione di un'anima. Capiamo presto che la sua motivazione non era il guadagno economico, ma qualcosa di molto più profondo e struggente: il desiderio di rispetto, di essere, anche solo per pochi giorni, qualcuno che conta.
Ma se la lettura pirandelliana illumina il gioco delle maschere e della verità, un'altra ombra si proietta sulla vicenda, ed è quella, inconfondibile, di Franz Kafka. Il tribunale in cui si trova Sabzian, pur presieduto da un giudice umano e comprensivo, assume i contorni di un'assurda corte kafkiana. La sua non è una colpa giuridica, ma esistenziale: la colpa di aver desiderato un'altra identità, di aver tentato di forzare l'ingresso in un "castello" (quello dell'arte e del riconoscimento sociale) le cui porte per lui erano sbarrate. L'accusa di frode è solo la formalità burocratica che maschera un processo a un'ambizione, a un desiderio di trascendenza. Il suo reato è una domanda di legittimazione presentata nel modo sbagliato, un tentativo disperato di ricevere un'approvazione da un sistema che non lo riconosce. Come un personaggio di Kafka, Sabzian è un uomo comune intrappolato in una logica più grande di lui, giudicato per un crimine che è meno legato a ciò che ha fatto e più a ciò che ha osato desiderare di essere.
In questo, il film è una potentissima riflessione sul ruolo dell'arte e dell'artista nell'Iran post-rivoluzionario. Per Sabzian, il cinema non è intrattenimento, è una forma di trascendenza, una religione laica. Essere un regista come Makhmalbaf significa avere una voce, essere un creatore di mondi, un'identità rispettata in una società dove lui si sente invisibile. Il suo crimine non è un atto di avidità, ma un disperato tentativo di auto-creazione, un'appropriazione indebita di identità per sfuggire alla prigione della propria esistenza marginalizzata. È un gesto che nasce da un amore per il cinema così puro e totalizzante da diventare, paradossalmente, illegale.
Lo stile di Kiarostami è l'antitesi di tutto ciò che è sensazionalistico. La sua macchina da presa è paziente, empatica, quasi francescana. Si sofferma sui volti, sui silenzi, sui gesti minimi. Lui stesso non è un osservatore invisibile, ma un partecipante attivo, un mediatore. È il suo intervento che trasforma un processo penale in una seduta terapeutica di gruppo, un'occasione di riconciliazione. La sua arte si manifesta nel saper trovare una poesia profonda nell'ordinario, come nell'indimenticabile sequenza in cui una bomboletta spray, fatta cadere da un personaggio, rotola a lungo per una strada in discesa. Quel suono metallico e solitario, quel piccolo oggetto che viaggia ostinatamente, diventa una metafora visiva della ricerca di Sabzian, un dettaglio insignificante che si carica di un peso esistenziale enorme.
Il culmine di questo approccio meta-testuale è la scena finale, un momento di grazia cinematografica di una bellezza quasi insostenibile. Kiarostami orchestra l'incontro tra il vero Mohsen Makhmalbaf e Hossein Sabzian, appena rilasciato di prigione. Makhmalbaf arriva in moto per portare Sabzian a casa della famiglia Ahankhah per chiedere perdono. Ma, proprio in quel momento, il microfono di Kiarostami "si guasta". L'audio della loro conversazione diventa frammentario, distorto, quasi incomprensibile. Questa presunta défaillance tecnica è, naturalmente, la scelta registica più geniale del film. Negandoci la chiarezza del dialogo, Kiarostami ci costringe a un diverso tipo di ascolto. Ci spinge a concentrarci sui gesti: Makhmalbaf che compra un vaso di fiori, la stretta di mano, l'abbraccio. Ci rende testimoni privilegiati e al contempo rispettosi di un momento di un'intimità quasi sacra, un momento che non ha bisogno di parole per essere compreso. È la dichiarazione finale del regista: la verità più profonda non si trova sempre in un "close-up" nitido e a fuoco, ma a volte si nasconde nel fuori campo, nel non detto, nel suono imperfetto di una riconciliazione. Per questa sua capacità di usare il cinema per interrogare il cinema stesso e, nel farlo, di rivelare verità universali sull'animo umano, Close-Up non è solo un film da vedere prima di morire, è un film che ci insegna un modo nuovo di vedere.
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