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Daunbailò

1986

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Un titolo spiritoso, finalmente ironico del distributore italiano, per un film che sfoggia un bianco e nero resuscitato da un quadro impressionista, ma che in realtà è assai più vicino alla malinconica, vivida astrazione di un Robert Frank, o alla geometrica solennità di un Walker Evans. Il monocromo di Robby Müller, storico direttore della fotografia di Jarmusch, è un velo di eleganza disadorna che avvolge ogni fotogramma, trasfigurando la prosaica realtà in una visione quasi onirica, accentuando il senso di sospensione temporale e l’intrinseca solitudine dei personaggi. Non è un caso che Jarmusch, maestro della sottrazione e dell'essenziale, opti così spesso per questa scelta estetica: il bianco e nero conferisce ai suoi personaggi, spesso ai margini della società, una dignità atemporale, quasi archetipica, sottraendoli alle distrazioni cromatiche del quotidiano per concentrare lo sguardo sull'anima.

Con Down By Law, Jarmusch crea un’allegra congrega di tre amici riuniti dalla permanenza forzata dentro una cella di un carcere di New Orleans. Una città che, lungi dall'essere un semplice sfondo, si fa personaggio essa stessa: le sue atmosfere torbide, il caldo afoso, il senso di decadenza romantica e la sua musica intrinseca permeano il film, anche quando si è reclusi tra quattro mura, anticipando la fuga verso un paesaggio ancora più desolato, ma non meno evocativo.

I tre sono di disparata estrazione sociale: Jack (John Lurie), un pappone dentro per sfruttamento della prostituzione, Zack (Tom Waits) un DJ finito in carcere per una rissa e Roberto (Benigni) turista italiano, l’unico dei tre ad essere stato rinchiuso per un errore giudiziario. Il genio del casting di Jarmusch è qui evidente nella sua piena, quasi alchemica, realizzazione. Lurie e Waits, figure iconiche del panorama musicale e artistico underground americano, portano sullo schermo la loro intrinseca autenticità, la loro voce graffiante e la loro imperturbabile presenza scenica. Sono l'incarnazione di un certo tipo di marginalità cool, tipica del cinema jarmuschiano. Benigni, d’altro canto, è un’eruzione vulcanica di energia mediterranea, un elemento caotico che irrompe nella placida disperazione dei due compagni di sventura. Il suo Roberto è un folle sognatore, un visionario linguistico la cui vitalità irrefrenabile diventa il catalizzatore non solo della loro evasione, ma anche della loro inattesa, profonda connessione.

Roberto con la sua stralunata comicità troverà nuovi improbabili piani di convergenza semantica su cui intavolare discorsi con gli altri due. La barriera linguistica, che in altre mani sarebbe un banale espediente comico, qui si trasforma in un fertile terreno per l'esplorazione della comunicazione umana, o della sua inevitabile fallacia. Il celebre mantra di Benigni, "It's a-wunderful!", non è solo una battuta, ma un’affermazione esistenziale che travalica l’incomprensione, un inno alla gioia più pura che può emergere persino dalla privazione.

Ne nasceranno grotteschi dialoghi davvero molto gustosi, sempre sul limine sottile che separa grottesco dal teatro dell’assurdo, con una venatura di robusta ironia. Il rimando al teatro dell'assurdo non è affatto casuale: in quelle conversazioni apparentemente senza capo né coda, nei silenzi interminabili e nelle repentine accensioni verbali, riecheggiano le voci di Beckett e Ionesco, di Pinter e Albee. La ricerca di un senso in un universo indifferente, la routine alienante della prigione che riflette la prigionia esistenziale, e la liberatoria, seppur effimera, evasione attraverso il linguaggio e l'immaginazione. Il non-sense di Jarmusch non è mai nichilista; è piuttosto una lente attraverso cui osservare la comicità intrinseca della condizione umana, la sua patetica e commovente lotta per stabilire un contatto, per creare un significato laddove sembra non essercene alcuno.

Finché Roberto non trova un passaggio che consente ai tre di evadere di cella e di rigettarsi nel mondo reale. L'evasione stessa non è un'epica fuga, ma un evento quasi casuale, un'opportunità colta al volo, un dettaglio tipico del minimalismo narrativo di Jarmusch, che preferisce l'anti-climax all'azione spettacolare. Il "mondo reale" in cui si ritrovano non è meno strano della prigione: la vastità desolata delle paludi della Louisiana, le strade polverose, i motel fatiscenti. È un paesaggio che riflette la loro stessa condizione di anime alla deriva, ma che offre anche la promessa di una libertà indefinita.

Sarà occasione per fare un pezzo di strada insieme condividendo ansie, progetti e speranze per il futuro. Questo è il cuore pulsante del film: un road movie atipico, dove la meta non è un luogo fisico, ma la scoperta reciproca. Come in altri suoi capolavori on the road (Stranger Than Paradise, Dead Man), Jarmusch trasforma il viaggio esterno in un'odissea interiore, un pellegrinaggio dell'anima che non segue mappe o itinerari prestabiliti, ma la serendipità degli incontri e la lenta maturazione di legami inaspettati. Il film è una dimostrazione sublime di come anche la più improbabile delle compagnie possa trovare una risonanza emotiva, un’armonia dissonante, nel silenzio della strada e nella volubilità dell’esistenza.

Daunbailò è una macchina del nonsense e dello humour on the road che esplode dallo schermo regalando momenti di galoppante ilarità. È un'ode all'amicizia, alla resilienza, alla poesia del quotidiano e al potere della stravaganza. Un road movie delizioso in cui dialoghi e cast fanno quasi metà dell’opera per Jarmusch, ma dove la musica – in particolare le ipnotiche composizioni di John Lurie e le ballate rugginose di Tom Waits – e la fotografia evocativa completano un quadro di rara perfezione stilistica e narrativa. Un film che, a distanza di decenni, continua a risuonare per la sua originalità, il suo umorismo senza tempo e la sua profonda, seppur sottilmente velata, umanità.

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