Decision to Leave
2022
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Media: 4.50 / 5
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Regista
Un velo di nebbia perenne avvolge le vette e le valli di "Decision to Leave", un sudario diafano che non solo definisce l'estetica del film ma ne costituisce la chiave ermeneutica fondamentale. Park Chan-wook, un cineasta che ha fatto della violenza barocca e dell'eccesso stilistico la sua cifra autoriale in opere come Oldboy o The Handmaiden, qui opera per sottrazione, scolpendo un capolavoro di contenuta disperazione. Il suo è un neo-noir che disinnesca le convenzioni del genere dall'interno, sostituendo il cinismo hard-boiled con una malinconia così profonda e cortese da sfiorare l'etichetta del romanzo cavalleresco. È un film che si interroga non tanto sul "chi è stato?", ma sul "chi sei tu, veramente?".
La premessa è di una semplicità ingannevole, quasi un archetipo da manuale: un detective impeccabile, insonne e ossessionato dal suo lavoro, Hae-jun (un magnifico Park Hae-il), indaga sulla morte di un uomo caduto da una montagna. La vedova, la misteriosa immigrata cinese Seo-rae (un'ipnotica Tang Wei), diventa la sua principale sospettata e, inevitabilmente, la sua ossessione. Fin qui, tutto sembrerebbe ricalcare le orme di innumerevoli detective story, da Chandler a Simenon. Ma Park non è interessato all'eziologia del crimine; è affascinato dalla sintomatologia dell'amore impossibile. Il film si trasforma quasi subito in un'anatomia dello sguardo, un trattato sul voyeurismo nell'era digitale. Hae-jun non pedina la sua sospettata nascondendosi dietro un angolo buio, ma la osserva attraverso binocoli, schermi di smartphone e il feed del suo smartwatch. La tecnologia, onnipresente e asettica, diventa il proscenio della loro intimità, un filtro che al contempo li connette e li separa. La sorveglianza si tramuta in una forma perversa di corteggiamento, un'anticamera del desiderio dove ogni gesto spiato è un messaggio da decifrare.
È qui che il film compie il suo primo, geniale, scarto semantico. Il parallelismo più immediato e forse più pigro sarebbe con Vertigo di Hitchcock. Certo, c'è un uomo di legge ossessionato da una donna enigmatica che potrebbe non essere chi dice di essere. Ma se James Stewart cercava di plasmare Kim Novak a immagine e somiglianza di un fantasma, Hae-jun non vuole cambiare Seo-rae. Al contrario, vuole "risolverla", come se fosse un caso irrisolto, un file da chiudere per poter finalmente dormire la notte. La sua tragedia non è quella di un Pigmalione, ma quella di un esegeta di fronte a un testo infinito, indecifrabile. La sua integrità, il suo heung-gye – un concetto coreano che indica una sorta di orgoglio e compostezza – si sgretola non per la passione carnale, ma per l'impossibilità di comprendere appieno l'oggetto del suo studio.
L'ostacolo linguistico tra i due personaggi è il motore metaforico dell'intera opera. Comunicando attraverso un'app di traduzione sul telefono, le loro conversazioni diventano una stratificazione di significati, un labirinto di possibili interpretazioni. "Quando hai detto di amarmi, la mia vita è finita e la tua è iniziata", dice lui a un certo punto. Ma cosa significa davvero "amore" quando è mediato da un algoritmo? L'app, con le sue traduzioni a volte letterali e a volte poeticamente imprecise, diventa il terzo protagonista della loro relazione, un oracolo digitale che sancisce l'ambiguità perpetua del loro legame. Il loro non è un amore "lost in translation", ma un amore che esiste solo nella traduzione, in quello spazio liminale tra l'intenzione e l'espressione, tra il detto e il compreso. Questa è una riflessione potentissima sulla comunicazione nelle relazioni moderne, dove i nostri scambi sono costantemente filtrati da schermi e software, creando una vicinanza illusoria che maschera un'incolmabile distanza.
Park Chan-wook orchestra questo dramma con una precisione formale che lascia senza fiato. Ogni inquadratura è una composizione pittorica, ogni transizione è un funambolismo visivo che lega indissolubilmente i punti di vista dei personaggi. Pensiamo alla celebre soggettiva dall'interno dell'occhio di un cadavere, o ai passaggi in cui la cinepresa si muove senza soluzione di continuità dallo sguardo del detective alla scena che sta immaginando, fondendo realtà e supposizione in un unico flusso visivo. Questo non è mero virtuosismo; è la grammatica del film. È il modo in cui Park ci dice che l'oggettività è un'illusione, che la "verità" di un caso o di un sentimento è sempre una costruzione soggettiva, una narrazione che ci raccontiamo. Lo stile, qui, non è un orpello, ma la sostanza stessa del racconto, riecheggiando la lezione del nouveau roman francese, dove la descrizione meticolosa degli oggetti e delle superfici serve a rivelare il vuoto interiore dei personaggi.
Il film è diviso nettamente in due parti, quasi come i movimenti di una sinfonia. La prima, ambientata tra le montagne nebbiose, è un crescendo di tensione e attrazione. La seconda, spostata nella cittadina costiera di Ipo, è un adagio crepuscolare, dominato dal ritmo incessante del mare. La montagna, luogo della caduta e dell'apogeo della loro connessione, è un enigma verticale, da scalare e da cui si può precipitare. Il mare, invece, è un mistero orizzontale, un abisso che dissolve ogni cosa, che cancella le tracce e inghiotte i segreti. Il finale, di una potenza tragica quasi operistica, è la consacrazione di questa metafora. Seo-rae non sceglie la morte come una fuga, ma come un atto performativo definitivo. Sceglie di diventare lei stessa un "caso irrisolto", un file che Hae-jun non potrà mai chiudere, condannandolo a un'insonnia eterna, a una ricerca senza fine. Il suo suicidio non è un punto, ma una parentesi che si apre sull'infinito. È la sua ultima, crudele e allo stesso tempo generosa, traduzione d'amore: trasformarsi in un mistero per rimanere per sempre nella mente dell'uomo che ama.
"Decision to Leave" è un film che respira la stessa aria rarefatta di opere come In the Mood for Love di Wong Kar-wai, con cui condivide l'estetica della repressione e del desiderio inespresso, ma la contamina con un'inquietudine thriller che è puramente parkiana. È un film su come le persone si "leggono" a vicenda, su come costruiscono narrazioni per dare un senso al caos delle emozioni. Hae-jun, il detective che appende le foto dei suoi casi irrisolti al muro, non riesce a staccare quella di Seo-rae perché lei non è un'immagine, ma un testo in continua evoluzione. Lei è il suo romanzo preferito, quello che non si stancherebbe mai di rileggere, sperando ogni volta di trovare un significato nuovo, una verità nascosta tra le righe. Ma la verità, lapidaria e terribile, è che non c'è nessuna verità da trovare, solo la superficie increspata del mare sotto cui giace un mistero inviolabile. Un capolavoro assoluto, destinato non solo a essere visto, ma a essere studiato, decifrato e, infine, amato nella sua magnifica, straziante indecifrabilità.
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