Delitto in pieno sole
1960
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Regista
Sotto il sole abbacinante del Mediterraneo, ogni ombra scompare. E nell'assenza di ombra, scompare anche la coscienza. René Clément, con Delitto in pieno sole, non dirige semplicemente un thriller tratto da un romanzo di Patricia Highsmith; orchestra un'opera pagana, un noir solare dove la luce non rivela la verità, ma la dissolve, la sbianca fino a renderla un'astrazione estetica. La morale, i peccati, le colpe: tutto evapora sotto lo sguardo indifferente di un astro che è, al contempo, complice e giudice supremo. Il film è una tela abbagliante sulla quale si proietta il vuoto scintillante del desiderio moderno, un vuoto incarnato con agghiacciante perfezione dal volto di Alain Delon, qui al suo primo, definitivo appuntamento con il mito.
Il suo Tom Ripley non è ancora il nevrotico e fragile sociopatico che Anthony Minghella ci consegnerà decenni dopo. Quello di Delon è un angelo caduto con gli occhi di ghiaccio, una creatura di pura ambizione la cui amoralità non nasce da un trauma, ma da una lucidità quasi nietzschiana. È un parassita estetico. Inviato in Italia per riportare a casa il ricco e viziato Philippe Greenleaf (un Maurice Ronet superbo nella sua indolente crudeltà), Ripley non desidera semplicemente i soldi di Philippe, la sua barca o la sua donna, Marge (una Marie Laforêt eterea e malinconica). Egli desidera la sua esistenza. La sua fame non è materiale, è ontologica. In questo, Clément si dimostra un lettore finissimo di Highsmith, cogliendo come il fulcro del dramma non sia l'invidia di classe, ma un atto di mimesi predatoria, un vampirismo esistenziale. Ripley osserva Philippe non come un servo osserva il padrone, ma come un artista osserva il suo modello prima di distruggerlo e prenderne il posto.
La prima parte del film è un balletto a tre di crudeltà psicologica, un ménage à trois di desideri frustrati e umiliazioni sottili che si consuma tra le piazze assolate di Roma e le acque cristalline al largo di Ischia. Clément orchestra questa tensione con la precisione di un orologiaio, ma è il suo direttore della fotografia, il leggendario Henri Decaë – che ironicamente avrebbe legato il suo nome alla Nouvelle Vague di Truffaut e Malle – a trasformare il paesaggio in un personaggio. Il mare non è mai stato così bello e così minaccioso, un amniotico blu cobalto che promette piacere e oblio. È un'inversione del canone noir: il pericolo non si annida nei vicoli bui, ma nell'accecante apertura del mare aperto. È un Caravaggio alla rovescia, un "chiaroscuro solare" dove il male non emerge dall'oscurità ma viene partorito dalla luce stessa.
E poi, la scena madre. L'omicidio di Philippe sulla barca è un capolavoro di anti-spettacolarità brutale. Non c'è l'eleganza stilizzata di un delitto hitchcockiano; c'è la goffaggine, lo sforzo fisico, il suono sordo dei colpi, il pesce che si dibatte in un ultimo spasmo di vita quasi a riecheggiare quello di Philippe. È un atto scomposto, sporco, disperato, la cui violenza stridente è amplificata dal contrasto con la placida bellezza del contesto. In quel momento, Ripley non uccide solo un uomo; uccide il suo doppio, il suo oggetto del desiderio, in un rituale di passaggio che ha le sinistre sfumature di un sacrificio umano. È qui che il film trascende il genere e diventa una riflessione meta-testuale: il giovane, sconosciuto e bellissimo Delon "uccide" cinematograficamente l'attore più affermato, Ronet, per rubargli la scena, il ruolo, l'identità di protagonista. La sua ascesa divistica è inscritta nella narrazione stessa.
Da quel momento, Delitto in pieno sole diventa un'ipnotica discesa nella performance dell'identità. Ripley che si esercita a imitare la firma di Philippe, che ne indossa i vestiti, che ne modula la voce al telefono, non è semplicemente un truffatore. È un attore totale, un replicante che cerca di assorbire l'anima del suo originale. C'è un'eco di Dostoevskij, ma se Raskolnikov era tormentato dalla filosofia e dal peso del suo atto, Ripley è preoccupato solo dalla logistica e dall'estetica della sua sostituzione. Il suo unico tormento è il rischio di una cattiva performance. In questa sua dedizione all'apparenza, Ripley è un fratello spirituale del Dorian Gray di Wilde: la sua bellezza è la maschera perfetta che nasconde un'anima che non è corrotta, ma semplicemente assente, un foglio bianco su cui può essere scritto qualsiasi nome.
Il film di Clément, uscito nel 1960, si colloca in uno spazio affascinante nel panorama del cinema francese. Non appartiene alla "tradizione di qualità" che la Nouvelle Vague voleva demolire, ma non ne sposa nemmeno l'estetica anarcoide e destrutturata. È un'opera di un classicismo superbo, con una sceneggiatura di ferro e una regia che non lascia nulla al caso, eppure respira una modernità sconcertante. Lo fa nell'uso delle location reali, nella sensibilità per l'alienazione dei suoi personaggi, nell'ambiguità psicologica che, pur smorzata rispetto al romanzo, serpeggia in ogni inquadratura. Il sottotesto omoerotico, così palese in Highsmith, viene qui sublimato in un'intensa, quasi soffocante, omo-socialità. Lo sguardo di Ripley su Philippe è carico di un misto di ammirazione, invidia e un desiderio che trascende la semplice amicizia, un'attrazione per un'immagine di mascolinità sicura e privilegiata che egli può solo imitare e, infine, annientare per possederla.
È impossibile non fare un parallelo con il capolavoro di Antonioni uscito nello stesso anno, L'Avventura. Entrambi i film sono ambientati in un'Italia da cartolina popolata da ricchi annoiati e apatici, ed entrambi ruotano attorno a una scomparsa che rivela il vuoto esistenziale dei personaggi. Ma dove Antonioni esplora l'abulia e l'incomunicabilità con sguardo metafisico, Clément innesta su questo stesso terreno la meccanica implacabile del thriller, creando un ibrido straordinario: un dramma esistenziale con il battito cardiaco di un noir. E poi c'è la partitura di Nino Rota, che fluttua tra un'inquietudine jazzata e un'epica malinconia, commentando l'azione non tanto per creare suspense, quanto per sottolineare la tragica fatalità che incombe su questo paradiso terrestre.
Il finale, alterato rispetto al romanzo, è una concessione quasi obbligata ai codici morali dell'epoca, ma Clément lo gira con un'ironia crudele che ne amplifica la potenza. Ripley, trionfante, sdraiato su un lettino, ordina un drink e si gode il suo successo. Crede di aver compiuto il delitto perfetto, di aver riscritto la propria esistenza. Ma il mare, suo complice silenzioso, sta per tradirlo. La macchina da presa si alza lentamente, in un movimento ascensionale che è quasi divino, rivelandoci il corpo di Philippe impigliato all'elica della barca che viene tirata a secco. La verità non emerge da un'indagine poliziesca, ma letteralmente dalle profondità. Il sole che ha nascosto il crimine ora lo rivela in tutta la sua evidenza. È un deus ex machina beffardo, una chiusura del cerchio che non offre una vera catarsi morale, ma solo la constatazione che persino il più talentuoso degli impostori non può sfuggire del tutto al peso della realtà. Il sogno di Tom Ripley, così meticolosamente costruito, si infrange non per un errore umano, ma per un capriccio del destino. E il suo volto, fino a un attimo prima maschera di serafica contentezza, è l'ultima, indimenticabile immagine di un angelo a cui sono state appena strappate le ali.
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