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Dersu Uzala, il Piccolo Uomo delle Grandi Pianure

1975

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Kurosawa trascende il suo stesso stile e per una volta abbandona il milieu giapponese per narrare una storia di un cacciatore mongolo, una mistica creatura in comunione con una natura materna seppur tremendamente ostile. Se in altre opere il regista ha scandagliato le profondità dell'animo umano attraverso i codici d'onore dei samurai o le asprezze del Giappone post-bellico, in Dersu Uzala la sua lente si posa su un archetipo di saggezza primordiale, un uomo il cui legame con l'ambiente circostante supera ogni convenzione sociale e logica occidentale.

Tratto dal libro di viaggio dello scienziato ed esploratore russo Arseniev, Dersu Uzala rappresenta solo formalmente una deviazione semantica nel linguaggio di Kurosawa. In realtà, la sua visione poetica delle cose è sempre presente, avvolgendo lo spettatore in un soffuso alone di leggenda sussurrata, di piccoli gesti preziosi che svelano verità universali. È il Kurosawa più intimo, più meditativo, un maestro che trova nel racconto di una singolare amicizia transculturale l'occasione per esprimere un umanesimo profondo e incondizionato, capace di superare le barriere linguistiche e le differenze più abissali. L'adattamento delle memorie di Arseniev non è una mera trasposizione, ma un'elevazione del materiale di partenza a un piano filosofico ed esistenziale, un palinsesto in cui le esperienze personali dell'esploratore diventano una parabola sull'incontro tra civiltà e natura incontaminata.

Nel 1902, in un'epoca di fervore esplorativo e di espansione imperiale russa nell'Estremo Oriente, Arseniev si trova con una spedizione scientifica e cartografica lungo il fiume Ussuri, in una terra selvaggia ai confini della Manciuria e della Siberia, dimora di popolazioni indigene come i Goldi (Nani) e gli Udege. Le condizioni tremendamente avverse di un territorio inesplorato e implacabile mettono in seria difficoltà la spedizione, sull'orlo del disastro, ma l’intervento di un misterioso personaggio, un cacciatore nomade di nome Dersu Uzala, si rivelerà provvidenziale. Non si tratta solo di una questione di sopravvivenza fisica; Dersu, con la sua abilità sovrannaturale di leggere i segni della natura e di anticipare i suoi capricci, introduce l'uomo civilizzato a una dimensione dell'esistenza dimenticata. La sua presenza è una lezione vivente di umiltà e di interdipendenza.

Lentamente, Arseniev riesce a fare breccia attraverso la scorza di incomunicabilità che lo separa dall’uomo, scalfendo la diffidenza e costruendo con lui una profonda amicizia che trascende ogni vincolo sociale, culturale e generazionale. Non è un rapporto gerarchico, bensì un dialogo paritario, quasi un reciproco apprendistato, in cui l'esploratore, detentore del sapere accademico, impara dal cacciatore una sapienza ontologica, forgiata dall'esperienza diretta e da un'intuitiva comprensione del cosmo. L'amicizia tra questi due uomini, apparentemente così distanti, diviene il cuore pulsante del film, un inno alla capacità umana di riconoscere l'altro al di là di ogni categorizzazione.

Sarà così condotto da Dersu Uzala in un mondo fatto di “omini”, una visione animista in cui il sole e la luna sono creature forti, dotate di volontà propria, così come il vento, l'acqua e il fuoco. Ogni elemento naturale, ogni animale, ogni fenomeno atmosferico è permeato da una forza vitale, da uno spirito che richiede rispetto e osservazione attenta. Non è mera superstizione, ma un'ermeneutica della natura, una visione poetica e antropocentrica (nel senso di relazionale, non dominatrice) che ricorda da vicino la cultura animista di certe popolazioni legate fortemente al territorio in cui vivono, come i Masai africani, gli Indios amazzonici o gli aborigeni australiani. Questa prospettiva, quasi profetica per l'epoca di realizzazione del film (1975), sottolinea l'importanza di un'armonia ecologica ben prima che le problematiche ambientali diventassero un tema dominante nel dibattito globale. Kurosawa ci mostra come la "civiltà" con la sua brama di dominio e la sua incapacità di ascoltare, sia destinata a distruggere non solo l'ambiente, ma anche lo spirito di chi ne è custode.

Kurosawa è straordinario nel riportare su pellicola l’intensità dell’unione tra uomo e natura, l’immacolata purezza di un uomo slegato da ogni contesto civile. La sua regia si fa quasi eterea, lasciando che la vastità del paesaggio siberiano e l'immensa forza degli elementi naturali diventino personaggi a pieno titolo. Le inquadrature ampie, che spesso riducono le figure umane a minuscoli puntini sullo sfondo di foreste sconfinate o distese ghiacciate, sottolineano la piccolezza dell'uomo di fronte alla grandezza del creato, ma anche la sua resilienza e la sua capacità di adattamento. Allo stesso tempo, i primi piani intensi su Dersu, interpretato con una gravità e una dignità commoventi da Maxim Munzuk, rivelano un'anima antica, scolpita dalla vita e dalle intemperie, depositario di una saggezza che la modernità ha smarrito. La fotografia, curata con maestria, cattura le luci cangianti delle stagioni, il rigore dell'inverno e l'effervescenza della primavera, trasformando ogni scena in un quadro vivido e palpitante.

Un’opera che trasuda lirismo e che commuove con la forza straordinaria delle sue immagini, Dersu Uzala è un testamento al genio di Kurosawa, un film che, pur discostandosi dal suo consueto teatro di battaglie e drammi sociali, si rivela uno dei suoi più penetranti studi sulla condizione umana. La malinconia intrinseca della narrazione, che culmina nel tragico e inevitabile destino di Dersu, divenuto incapace di vivere nel "mondo degli omini" senza natura, non è un mero lamento, ma un monito potente. È il lamento per la perdita di un sapere ancestrale, per la scomparsa di un modo di essere che la modernità non può comprendere né accogliere. L'Oscar come Miglior Film Straniero, guadagnato in un'inedita coproduzione sovietica, fu un riconoscimento internazionale non solo della bellezza estetica del film, ma anche della sua risonanza universale, un'eco che continua a riverberare, invitandoci a riflettere sul nostro posto nel mondo e sul prezzo del progresso.

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