Dio esiste e vive a Bruxelles
2015
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Regista
Sondare la mente di Jaco Van Dormael è come inciampare in un dipinto di Magritte mentre si ascolta un disco di Philip Glass suonato al contrario: un’esperienza che smantella le certezze del quotidiano per rivelare la poesia vertiginosa che si annida nell'assurdo. Con Dio esiste e vive a Bruxelles (Le Tout Nouveau Testament), il regista belga non si limita a girare un film, ma orchestra una fuga teologica, un vangelo apocrifo per il XXI secolo che ha l'irriverenza di un pamphlet di Voltaire e la tenerezza agrodolce di un film di Jeunet, se Jeunet avesse passato un pomeriggio a discutere di gnosticismo con Luis Buñuel.
Il Dio di Van Dormael non è il motore immobile di Aristotele, né il grande architetto dell'universo. È un demiurgo meschino, un burocrate del caos in vestaglia e ciabatte, interpretato da un Benoît Poelvoorde magistrale nella sua abietta normalità. Vive in un claustrofobico appartamento di Bruxelles, un non-luogo che funge da server centrale per la Creazione, e governa l'umanità attraverso un computer antidiluviano, divertendosi a inventare le Leggi della Sfiga Universale: la fetta di pane tostato cade sempre dal lato della marmellata, l'altra coda al supermercato è sempre la più veloce, e così via. Questa non è la teologia del sublime, ma la teodicea della scocciatura, un universo fondato non sul peccato originale, ma sull'irritazione perpetua. L'appartamento stesso è un capolavoro di design gilliamesco, un inferno domestico di tubature a vista e archivi polverosi che ricorda la burocrazia distopica di Brazil, dove il potere assoluto è tanto più terrificante quanto più è squallido e incompetente.
La ribellione, come spesso accade nelle narrazioni più archetipiche, nasce dall'interno. Non è Lucifero a guidare la rivolta, ma Ea (una Pili Groyne dall'aria serafica e determinata), la figlia di dieci anni di Dio, stanca degli abusi paterni e della silenziosa rassegnazione della madre, una Dea passiva che colleziona figurine di baseball e comunica solo attraverso il ricamo. In un atto di sabotaggio digitale e di liberazione escatologica, Ea entra nello studio paterno, viola il sacro computer e invia a ogni essere umano sulla Terra un SMS con la propria, inappellabile, data di morte. È una premessa di una genialità devastante. Van Dormael prende il più grande mistero esistenziale dell'umanità e lo trasforma in una notifica push, un dato grezzo che spoglia la vita di ogni pretesa metafisica.
Cosa succede quando l'orizzonte ultimo diventa un appuntamento segnato in calendario? Il film esplora questa domanda non con la cupezza di un dramma esistenzialista alla Bergman, ma con la frammentaria e bizzarra curiosità di un catalogo di umane reazioni. C'è chi si lancia dal tetto per testare l'infallibilità della profezia, chi decide di diventare un eroe da videogioco, chi abbandona un lavoro odiato per imparare a parlare con gli uccelli. La conoscenza della fine non porta necessariamente alla disperazione, ma a una rinegoziazione radicale del presente. Liberati dall'ansia dell'ignoto, i personaggi sono costretti a confrontarsi con una domanda ancora più pressante: non quando finirà, ma come voglio vivere il tempo che mi resta?
Fuggita dall'appartamento paterno attraverso l'oblò di una lavatrice – un portale surreale che collega il divino al più prosaico dei mondi, quello di una lavanderia a gettoni belga – Ea si imbarca in una missione: trovare sei nuovi apostoli per scrivere un "Nuovissimo Testamento". A differenza di suo fratello J.C., i cui apostoli erano pescatori e pubblicani, quelli di Ea sono un campionario di solitudini moderne, anime perse nella Bruxelles grigia e piovosa. Ogni apostolo diventa il protagonista di una vignetta autonoma, un cortometraggio nel film che svela la "musica interiore" di ciascuno, un leitmotiv musicale che ne definisce l'essenza emotiva.
Qui Van Dormael dispiega tutto il suo talento per il realismo magico, un'eredità che sembra discendere più da Italo Calvino che da Gabriel García Márquez. Le storie sono favole agrodolci che celebrano l'imprevedibile bellezza delle connessioni umane. C'è l'impiegata solitaria (una Catherine Deneuve sublime nella sua vulnerabilità) che trova l'amore con un gorilla; l'assassino a pagamento che scopre una nuova vocazione; il maniaco sessuale che si innamora di una donna senza un braccio, trovando finalmente un'intimità che va oltre la carne; un bambino malato che decide di vivere i suoi ultimi giorni come una ragazza per capire com'è l'altra metà del cielo. Sono racconti che, presi singolarmente, potrebbero sfiorare il confine del twee, del bizzarro fine a se stesso. Ma nell'architettura complessiva del film, diventano i versetti di un nuovo vangelo laico e umanista, un testo sacro scritto non da un'autorità divina, ma raccolto dalle voci degli ultimi.
Il film è una critica feroce, ma mai cinica, alla religione patriarcale. Il Dio-Padre è una figura di puro ego, un creatore che ha modellato il mondo a sua immagine e somiglianza: caotico, crudele e patriarcale. La salvezza, suggerisce Van Dormael, è un atto femminile. Ea non compie miracoli grandiosi, non cammina sulle acque né moltiplica i pani; il suo potere è l'ascolto, l'empatia. È una messia che non predica, ma raccoglie storie. E il culmine di questa rivoluzione matriarcale arriva nel finale, quando la Dea-Madre, finalmente liberatasi dalla sua sottomissione, prende il controllo del computer e riprogramma il mondo. Il cielo non è più un soffitto grigio, ma una fantasia floreale in perenne mutamento, un'opera d'arte kitsch e meravigliosa. Le leggi della fisica vengono riscritte secondo un principio non di fastidio, ma di gentilezza e ironia. È il trionfo dell'immaginazione sulla tirannia, dell'estetica sulla logica brutale.
Stilisticamente, Dio esiste e vive a Bruxelles è un'opera di un'inventiva visiva straripante, che mescola animazione in stop-motion, effetti speciali discreti e una fotografia che esalta la bellezza malinconica della capitale belga. La narrazione, affidata alla voce fuori campo di Ea, ha il tono di una favola per adulti, un candore che crea un contrappunto affascinante con la blasfemia della premessa. Van Dormael cita se stesso e il suo cinema precedente, in particolare Toto le Héros e Mr. Nobody, riprendendo i temi della memoria, del destino e delle infinite possibilità che si diramano da ogni scelta. Ma mentre Mr. Nobody era un'esplorazione filosofica complessa e quasi labirintica del multiverso, questo film ha un cuore più semplice e diretto: la ricerca di un piccolo, personale brandello di felicità in un universo mal progettato.
In definitiva, Dio esiste e vive a Bruxelles è un'opera profondamente sovversiva che riesce a essere, contemporaneamente, una satira teologica, una commedia nera e una commovente ode alla fragilità umana. Si inserisce in quel filone del cinema europeo che non ha paura di pensare in grande, di affrontare le massime questioni con gli strumenti della fantasia e dell'ironia. È un film che ci ricorda che, anche se l'universo fosse governato da un idiota in vestaglia, la capacità di raccontare e ascoltare le storie degli altri rimane l'atto di fede più rivoluzionario e salvifico che ci sia concesso. E che forse, il vero miracolo non è dividere le acque, ma trovare qualcuno che capisca la musica che abbiamo dentro.
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