
Do Not Expect Too Much from the End of the World
2023
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Regista
Il cinema di Radu Jude è un cinema di collisione. Collisione tra passato e presente, tra finzione e documento, tra l’immagine levigata del capitale e la grana sgranata della vita vissuta. Con Do Not Expect Too Much from the End of the World, il regista rumeno non si limita a orchestrare un tamponamento a catena di forme e idee; lancia un intero sfasciacarrozze contro lo schermo, un frastornante, caustico e geniale rottame della nostra contemporaneità. La protagonista, Angela, è il nostro Virgilio in questo inferno neoliberista. Assistente di produzione sottopagata e sovra-sfruttata, passa le sue giornate al volante, attraversando una Bucarest che è un palinsesto architettonico e spirituale di traumi mai sopiti. Guida per ore, alimentata da caffeina e rabbia, per conto di una multinazionale austriaca che vuole girare un video sulla sicurezza sul lavoro. Il suo compito: fare il casting della vittima perfetta, un lavoratore rimasto invalido in un incidente, la cui storia, opportunamente edulcorata, possa diventare un edificante spot aziendale.
Jude filma la prima parte del viaggio di Angela in un bianco e nero ruvido, granuloso, su pellicola 16mm, un formato che evoca immediatamente un senso di urgenza documentaristica, quasi da cinema-verità degli anni Sessanta. Ma non è un vezzo estetico. Questa scelta è un dispositivo dialettico, perché incastona nel suo racconto frammenti di un altro film, Angela merge mai departe (Angela va avanti) di Lucian Bratu, del 1981. In quel film, un’altra Angela, tassista nella Bucarest di Ceaușescu, navigava le stesse strade con sogni e problemi diversi, ma forse non così dissimili. Jude non crea un semplice gioco di specchi; mette in scena un cortocircuito temporale. L'Angela del 1981, simbolo di una timida emancipazione sotto un regime oppressivo, dialoga con la sua omonima del 2023, schiava precaria di un sistema che ha sostituito la dittatura del Partito con quella del profitto. Le strade sono le stesse, i palazzi fatiscenti anche, ma l'ideologia che li governa è mutata, lasciando intatta la sostanza dello sfruttamento. È un’operazione che ricorda le derive situazioniste, il détournement di immagini preesistenti per svelare la struttura nascosta del potere, o la furia iconoclasta di un Godard nel suo periodo Dziga Vertov, che smontava il linguaggio cinematografico per farne un’arma di critica politica.
Se la forma è una dichiarazione d'intenti, il contenuto è un pugno nello stomaco sferrato con un sorriso beffardo. La vera valvola di sfogo di Angela, il suo avatar digitale, è la vera chiave di volta del film. Con un filtro grottesco che le deforma il volto, si trasforma in "Bobita", una sorta di Andrew Tate dei Balcani, un personaggio volgare, misogino e complottista che vomita sui social le sue filippiche contro il "sistema", le donne e il politicamente corretto. È qui che il genio di Jude esplode in tutta la sua potenza satirica. Bobita non è solo un commentario sulla vacuità tossica della cultura degli influencer; è un dispositivo brechtiano perfetto. È la maschera carnevalesca, nel senso più bachtiniano del termine, attraverso cui Angela può rovesciare la sua frustrazione, canalizzando l'umiliazione subita in una performance di potere grottesca. Indossando i panni del suo oppressore ideologico, ne mima il linguaggio violento per esorcizzarlo. È una scelta tanto esilarante quanto terrificante, che ci sbatte in faccia la schizofrenia di un presente in cui l'unica forma di ribellione concessa sembra essere la parodia iperbolica del sistema stesso.
Il film è una sorta di road movie kafkiano, un viaggio verso il cuore di tenebra della burocrazia aziendale. L'odissea di Angela per trovare il "volto" giusto per la propaganda della multinazionale si trasforma in una galleria di umanità ferita, un catalogo delle vittime collaterali del progresso. La ricerca culmina nell'incontro con Ovidiu, un uomo la cui gamba è stata maciullata in un incidente sul lavoro. La sua storia, cruda e reale, deve essere levigata, riscritta, trasformata in una favola a lieto fine in cui la colpa non è del sistema produttivo ma della disattenzione individuale, e l'azienda appare come una benevola salvatrice. L'intero processo è una farsa macabra, un'allegoria lucida di come il linguaggio del marketing e delle pubbliche relazioni fagociti e neutralizzi ogni forma di verità. La delegata della multinazionale, con il suo sorriso di plastica e le sue frasi fatte in un inglese da manuale, è una sacerdotessa di questo culto dell'immagine, indifferente alla realtà finché la narrazione ufficiale non viene scalfita.
La citazione che dà il titolo al film, presa dal poeta aforista polacco Stanisław Jerzy Lec, "Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo", aleggia su ogni inquadratura. Non c’è stata un’apocalisse, nessuna rottura netta. C’è stato, piuttosto, un lento, inesorabile logoramento. La fine del mondo non è un evento, ma una condizione. È la condizione di Angela, intrappolata in un ciclo di lavoro senza fine. È la condizione di Ovidiu, il cui corpo spezzato deve diventare un cartellone pubblicitario. È la condizione di un paese in cui le rovine del comunismo fanno da sfondo spettrale alle scintillanti insegne del capitalismo globale, come in un romanzo di W. G. Sebald ambientato in un centro commerciale. Jude non giudica, non offre soluzioni facili. Il suo sguardo è quello di un entomologo impietoso che osserva le contorsioni di insetti intrappolati in una teca.
Il culmine del film è un tour de force di regia e di crudeltà intellettuale. La scena finale, un lunghissimo piano sequenza statico in cui si gira lo spot aziendale, è un capolavoro di tensione e di analisi sociale. In un'unica inquadratura, Jude condensa tutte le contraddizioni del film. Vediamo la troupe, la delegata aziendale, la famiglia di Ovidiu costretta a recitare una parte umiliante, e infine Angela, il cui volto diventa una maschera di stanchezza, disprezzo e, forse, di una silenziosa, imminente implosione. La realtà e la sua rappresentazione fittizia coesistono nello stesso spazio, in una lotta estenuante. È un finale che nega ogni catarsi, lasciandoci con un senso di profondo disagio e con la consapevolezza agghiacciante che la macchina da presa, come il capitale, può essere lo strumento più spietato di tutti.
Do Not Expect Too Much from the End of the World è un film-mostro, un collage punk che mescola TikTok e il neorealismo, la commedia dell'assurdo e il saggio politico. È un’opera esigente, a tratti sfinente, ma di una lucidità e di un'intelligenza abbaglianti. Radu Jude si conferma non solo il cantore più spietato delle nevrosi della Romania post-comunista, ma uno dei pochi registi oggi in grado di inventare un linguaggio cinematografico capace di catturare la follia policentrica del nostro tempo. È il cinema che ci meritiamo: frammentato, arrabbiato, disperatamente comico e brutalmente onesto. Non aspettatevi consolazione, ma preparatevi a una rivelazione.
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