Dov'è la casa del mio amico?
1987
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Regista
Un quaderno. Tutto ha inizio con un quaderno. In un’epoca cinematografica ossessionata dal MacGuffin – il congegno narrativo che muove la trama, spesso vuoto di significato intrinseco – Abbas Kiarostami compie un atto di purificazione radicale. Prende l'oggetto più umile, un quaderno di scuola, e lo carica di un peso morale talmente immenso da far impallidire qualsiasi valigetta piena di diamanti o microfilm segreti. Dov'è la casa del mio amico? non è un film su un bambino che deve restituire un quaderno; è un thriller etico mascherato da favola neorealista, un’odissea in miniatura che svela l'assurdità del mondo adulto attraverso lo sguardo implacabile e innocente di un bambino.
La premessa è di una semplicità disarmante, quasi biblica. Ahmed, uno scolaretto del villaggio di Koker, nel nord dell'Iran, si accorge di aver preso per errore il quaderno del suo compagno di banco, Mohamed Reda. Il maestro è stato categorico: se Mohamed si presenterà di nuovo senza aver fatto i compiti su quel quaderno specifico, verrà espulso. Per Ahmed, questa non è una semplice minaccia. È una sentenza inappellabile, un fallimento del sistema che lui, un bambino di otto anni, sente il dovere cosmico di riparare. Inizia così la sua disperata ricerca della casa dell'amico, situata nel vicino e labirintico villaggio di Poshteh. Un viaggio che trasforma le colline brulle e assolate dell'Iran rurale in un paesaggio mitologico, un territorio ostile governato da leggi incomprensibili.
A un primo sguardo, il film è un discendente diretto del Neorealismo italiano. L'uso di attori non professionisti (i bambini sono di una naturalezza sbalorditiva), la cinepresa che pedina il suo piccolo protagonista con la tenacia di Zavattini, la rappresentazione di una realtà rurale e povera: i debiti con De Sica e Ladri di biciclette sono evidenti. Lì, un uomo cercava una bicicletta per la sopravvivenza economica della sua famiglia; qui, un bambino cerca una casa per la sopravvivenza scolastica (e morale) di un amico. Ma Kiarostami trascende il modello. Mentre il film di De Sica si conclude con la disperazione e la sconfitta dell'individuo di fronte al sistema, quello di Kiarostami opera uno scarto sottile ma fondamentale, approdando a un umanesimo che è quasi un atto di fede.
La vera, profonda analogia letteraria non è tanto con le favole per l'infanzia, quanto con l'incubo burocratico di Franz Kafka. Ahmed è l'agrimensore K. de Il Castello, che cerca di raggiungere un'autorità irraggiungibile e di comprendere regole arbitrarie. Gli adulti che incontra nel suo peregrinare non sono cattivi; sono semplicemente, e terribilmente, adulti. Sono assorti nelle loro occupazioni, prigionieri delle loro logiche e delle loro tradizioni. C'è il nonno che pontifica sulla necessità di una disciplina ferrea, ignaro dell'urgenza morale che muove il nipote. C'è il falegname che promette aiuto ma si perde in chiacchiere con un cliente. Ci sono gli anziani nel villaggio vicino, che offrono indicazioni contraddittorie o semplicemente non ascoltano. Ognuno di loro è un ingranaggio in un meccanismo sociale che ha perso di vista l'essenziale. Parlano una lingua diversa da quella di Ahmed, una lingua fatta di pragmatismo, di gerarchie e di consuetudini, mentre il bambino parla l'esperanto universale dell'empatia. La casa dell'amico diventa così il Castello kafkiano: un luogo la cui esistenza è certa, ma la cui accessibilità è negata da un labirinto di indifferenza umana.
Visivamente, Kiarostami compie un miracolo. Trasforma un non-luogo, una manciata di case di fango abbarbicate su una collina, in uno spazio carico di significato esistenziale. La celeberrima inquadratura del sentiero a zig-zag che Ahmed percorre su e giù, più e più volte, è molto più di una scelta estetica. Diventa l'icona del film, il correlativo oggettivo della sua tenacia e della sua frustrazione. Quel sentiero è un mantra visivo, una rappresentazione grafica dello sforzo Sisifeo di compiere un gesto di pura bontà in un mondo che sembra non riconoscerlo. La fotografia sgranata e terrena, quasi documentaristica, non cerca mai il lirismo facile. La bellezza emerge dalla verità della situazione, dalla polvere sollevata dai piedi in corsa di Ahmed, dal vento che scuote l'unico albero sulla collina, dal contrasto tra la fragilità della sua figura e la vastità imponente del paesaggio. Quel paesaggio, come la Monument Valley per John Ford, non è uno sfondo, ma un protagonista. È la natura indifferente che fa da testimone a un dramma morale di proporzioni epiche.
Il contesto produttivo è fondamentale per comprendere la genesi di quest'opera. Realizzato sotto l'egida del Kanun, l'Istituto per lo Sviluppo Intellettuale di Bambini e Giovani Adulti, il film si inserisce in quella straordinaria ondata del cinema iraniano post-rivoluzionario che, per aggirare le maglie della censura e trovare canali di finanziamento, ha spesso eletto il mondo dell'infanzia a suo territorio privilegiato. Kiarostami, come altri maestri iraniani, ha trasformato un limite in una poetica. Attraverso gli occhi di un bambino, ha potuto costruire una critica sottile ma affilata alle rigidità della società patriarcale, all'autoritarismo del sistema educativo e all'incapacità degli adulti di comunicare e di ascoltare, senza mai scadere nel pamphlet politico. La sua è un'analisi culturale, un'osservazione antropologica che si fa arte universale.
La struttura del film è basata sulla ripetizione e sulla variazione, un principio quasi musicale. Ahmed corre, Ahmed chiede, Ahmed viene ignorato o frainteso, Ahmed corre di nuovo. Questo schema ripetitivo non genera noia, ma una tensione crescente e un'immersione totale nella sua missione. Sentiamo la sua stanchezza, il fiato corto, l'ansia che monta con il calare del sole. Kiarostami è un maestro del tempo reale, o meglio, del tempo percepito. Ogni minuto che passa, ogni porta che si chiude in faccia al nostro eroe, aumenta il peso della posta in gioco.
E poi, il finale. Un colpo di genio di una semplicità che lascia senza fiato. Dopo aver fallito nella sua ricerca, Ahmed torna a casa, sfinito e sconfitto. La mattina dopo, a scuola, mentre il maestro sta per punire Mohamed, Ahmed gli porge il quaderno. Il maestro lo apre. I compiti sono stati fatti. Ahmed non è riuscito a restituire il quaderno in tempo, ma ha compiuto un gesto ancora più grande: ha fatto il lavoro al posto dell'amico, assumendosi la sua responsabilità per salvarlo. Non è una soluzione che passa attraverso il mondo degli adulti; è una soluzione che lo aggira, che crea un canale di solidarietà e di intelligenza emotiva puramente infantile. In quel gesto finale, in quel quaderno con i compiti svolti, c'è più umanità, più eroismo e più speranza che in mille finali hollywoodiani. Kiarostami ci dice che la vera rivoluzione non è rovesciare il sistema, ma agire con decenza e compassione al suo interno, creando piccole oasi di grazia. È un finale che non risolve il problema strutturale (il maestro resterà severo, il mondo adulto indifferente), ma afferma la vittoria incrollabile dell'integrità individuale.
Dov'è la casa del mio amico? è un monumento cinematografico alla decenza umana. È la prova che le storie più grandi non necessitano di grandi mezzi, ma di una grande idea e di un cuore immenso. In un'ora e venti minuti, Kiarostami riesce a costruire un universo, a definire una poetica e a ricalibrare la nostra bussola morale. Ci costringe a guardare il mondo dal basso, all'altezza degli occhi di un bambino, e a riscoprire l'importanza titanica di un gesto apparentemente piccolo. È un film che non si limita a raccontare una storia, ma che pone una domanda fondamentale a ciascuno di noi: di fronte a un'ingiustizia, anche la più piccola, saremmo disposti a correre fino a perdere il fiato per trovare la casa del nostro amico?
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