Dracula
1931
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Regista
Il cinema, come la memoria, opera per immagini archetipiche, icone così potenti da trascendere la pellicola per incidersi nell'inconscio collettivo. E poche immagini possiedono la carica ipnotica, la ieratica e mortifera eleganza di Bela Lugosi che scende la scalinata del suo castello, avvolto in un mantello che sembra intessuto con la notte stessa. Il Dracula di Tod Browning del 1931 non è semplicemente un film; è una seduta spiritica, un rituale cinematografico che evoca un fantasma destinato a non conoscere tramonto. Analizzarlo oggi significa compiere un'autopsia su un corpo gloriosamente imbalsamato, scoprendo sotto la sua pelle rigida e teatrale un cuore che pulsa con le ansie e le contraddizioni di un'era in transizione.
La pellicola si manifesta in uno stato liminale, un crepuscolare punto di passaggio tra due mondi. Non è più cinema muto, ma non è ancora pienamente sonoro. Questa sua natura ibrida, questa sua esitazione, ne costituisce la più grande forza e la sua più evidente fragilità. La quasi totale assenza di una colonna sonora extradiegetica (un'aggiunta posteriore con la partitura di Philip Glass tenta di colmare questo vuoto, ma finisce per essere un'elegante sovrascrittura che ne altera la natura primigenia) immerge lo spettatore in un silenzio innaturale, sepolcrale. Un silenzio rotto solo da dialoghi declamatori, dal grido di un lupo o dal ronzio di un insetto. Questo vuoto sonoro non è un difetto tecnico, ma un abisso espressionista, un palcoscenico acustico dove ogni suono acquista un peso terrificante. È lo stesso silenzio che abita le tele di De Chirico, dove l'assenza di rumore rende l'architettura metafisica ancora più minacciosa e alienante.
Il film è, in effetti, un campo di battaglia stilistico. Da un lato, la regia di Tod Browning, reduce dalle collaborazioni con Lon Chaney e dal mondo circense del bizzarro, che imposta gran parte delle scene londinesi con una staticità da palcoscenico, tradendo la derivazione diretta dalla pièce teatrale di Hamilton Deane e John L. Balderston. Gli attori entrano ed escono dall'inquadratura come se si muovessero su un proscenio, i dialoghi sono spesso frontali, l'azione confinata in salotti borghesi che sembrano prigioni di velluto. Ma a questa convenzione teatrale si contrappone, con una forza tellurica, l'occhio cinematografico di Karl Freund. Il direttore della fotografia, un esule dell'Espressionismo tedesco che aveva plasmato gli incubi visivi di Metropolis e Il gabinetto del dottor Caligari, scatena la macchina da presa nella prima parte del film. Le sue carrellate fluide e spettrali attraverso le ragnatele titaniche del castello di Dracula, i suoi primissimi piani sugli occhi predatori di Lugosi, i suoi giochi di luce e ombra che trasformano un'architettura gotica in un labirinto della mente, sono puro cinema. È come se lo spirito inquieto di F.W. Murnau, il cui Nosferatu (1922) rimane l'antitesi ferina e pestilenziale al Dracula aristocratico di Browning, si fosse impossessato della cinepresa di Freund per infondere vita cinematica in un corpo altrimenti teatrale.
Questo dualismo è l'essenza del film. È lo scontro tra il Vecchio Mondo (gotico, espressionista, puramente visivo) e il Nuovo (dialogico, razionale, ma statico). Dracula stesso è l'incarnazione di questo conflitto. Bela Lugosi, che aveva già vestito i panni del Conte a Broadway, non recita una parte: la incarna, la ipostatizza. Il suo Dracula è una creatura di pause studiate, di gesti lenti e magnetici, di un accento ungherese che trasforma la lingua inglese in un incantesimo esotico e pericoloso. La sua performance è una sineddoche del film stesso: rigida, a tratti goffa se giudicata con i canoni del naturalismo, eppure dotata di un potere iconico ineguagliabile. Lugosi non ci mostra la mostruosità di un predatore, come farà Max Schreck; ci mostra la seduzione mortale di un'aristocrazia decaduta, un fascino antico e corruttore. La sua tragedia personale, quella di un attore che divenne prigioniero immortale del suo stesso personaggio, aggiunge un ulteriore, struggente strato metatestuale alla visione. Lui è Dracula, un esule condannato a ripetere all'infinito la sua performance, prosciugato dal ruolo che gli diede la fama.
Tematicamente, il film è una perfetta capsula del tempo delle ansie della sua epoca. Realizzato all'indomani del crollo di Wall Street e all'alba della Grande Depressione, il Dracula di Browning mette in scena il terrore dell'intrusione straniera. Il Conte non è solo un non-morto, è l'Altro per eccellenza: un nobile europeo, poliglotta e affascinante, che arriva nel cuore dell'impero anglosassone per prosciugarne la linfa vitale. Il suo attacco non è primariamente fisico, ma economico e sessuale. Egli "investe" in nuove proprietà, seduce le donne, infetta le linee di sangue della borghesia. La sua minaccia è quella di un parassitismo aristocratico che corrompe la purezza e l'ordine del mondo moderno, rappresentato dalla scienza positivista e un po' pedante di Van Helsing.
In questo senso, il film è un'opera profondamente pre-Code, intrisa di una sessualità tanto più potente quanto più è sottintesa. Il morso di Dracula sul collo di Mina o Lucy non è un semplice atto di violenza vampiresca, ma un'evidente metafora di un atto sessuale proibito, un "battesimo oscuro" che trasforma le donne da caste vittime vittoriane a creature della notte lascive e consapevoli del proprio desiderio. La trasformazione di Mina, il suo anelito per il suo "padrone" oscuro, è un'esplorazione audace della repressione sessuale femminile. Dracula offre una liberazione terrificante ma seducente dalle costrizioni sociali. È un'eco perversa del serpente nel Giardino dell'Eden, che offre una conoscenza che porta alla dannazione ma anche a una forma di potere. Questo sottotesto erotico e mortifero troverà la sua espressione più esplicita e colorata decenni dopo, nei film della Hammer con Christopher Lee, ma è qui, nel bianco e nero contrastato di Browning e Freund, che la sua radice è più torbida e potente.
Un aneddoto quasi leggendario che illumina la singolarità del film è la contemporanea produzione della sua versione in lingua spagnola. Girata di notte, sugli stessi set, con un cast diverso (guidato da Carlos Villarías) e un altro regista (George Melford), la versione spagnola è spesso considerata, da un punto di vista puramente tecnico, superiore. Melford, non essendo vincolato dalla rigidità della pièce teatrale inglese e potendo osservare i giornalieri di Browning, si prese maggiori libertà, utilizzando movimenti di macchina più audaci e composizioni più dinamiche. Confrontare le due versioni è un esercizio di critica cinematografica affascinante: è come osservare due interpretazioni diverse della stessa partitura. Quella di Browning è l'originale, iconica e seminale, definita dalla presenza totemica di Lugosi; quella di Melford è una variazione più fluida e cinematograficamente più moderna, un "what if" che rivela le potenzialità inespresse del progetto.
In definitiva, il Dracula del 1931 non è un capolavoro senza difetti. La sua struttura è sbilanciata, la sua recitazione a tratti legnosa, il suo ritmo quasi catatonico. Eppure, la sua influenza è paragonabile a quella di un buco nero culturale: un oggetto di densità infinita che ha piegato tutta la narrativa horror successiva attorno a sé. È un film che funziona meno come narrazione coerente e più come una sequenza di visioni oniriche e indimenticabili: il viaggio in carrozza tra i Carpazi, l'armadillo che striscia nel castello (un tocco di surrealtà degno di Buñuel), la nebbia che si insinua sotto la porta, gli occhi di Lugosi illuminati da due minuscoli fari. Ha creato non solo un mostro, ma una mitologia visiva, un linguaggio di gesti e atmosfere che è stato citato, parodiato e omaggiato all'infinito. Vederlo oggi non è un atto di nostalgia, ma un pellegrinaggio alle origini di un'icona, per riscoprire come, nel silenzio inquietante di uno studio di Hollywood di quasi un secolo fa, sia stata forgiata l'immagine stessa della paura elegante e immortale.
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