El Topo
1970
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Regista
Un pistolero vestito di nero avanza in un deserto che non appartiene a nessuna mappa, un paesaggio dell'anima essiccato dal sole della metafisica. Con lui, suo figlio nudo, simbolo di un'innocenza primordiale destinata a essere abbandonata. Questo incipit ieratico e tellurico non è l'inizio di un western, ma di un rituale. Alejandro Jodorowsky, con El Topo, non dirige un film; officia una cerimonia, un psicodramma alchemico che si prefigge di trasmutare la celluloide in oro spirituale e lo spettatore in un iniziato. Se il western classico americano era la mitologia fondativa di una nazione, e lo spaghetti western di Leone la sua decostruzione cinica e operistica, El Topo è il suo Vangelo apocrifo, un testo sacro scritto nel linguaggio febbrile dei sogni e delle allucinazioni.
La prima metà del film è una scalata violenta verso l'illuminazione, una sorta di Pilgrim's Progress armato di pistola. El Topo, "La Talpa", che scava per trovare la luce, è un archetipo, non un personaggio. È il pistolero definitivo, così abile da trascendere la propria funzione, trasformando la violenza in uno strumento di gnosi. Il suo percorso lo porta a sfidare i quattro Maestri del Deserto, figure che incarnano diverse filosofie e livelli di consapevolezza. Non sono semplici avversari da abbattere in un duello alla Mezzogiorno di Fuoco; sono koan viventi. Ogni scontro è una lezione spirituale mascherata da sparatoria. Jodorowsky attinge a piene mani da un sincretismo culturale vertiginoso: la sfida con il primo maestro, che devia i proiettili con pura forza mentale, evoca le leggende dei maestri Zen; il secondo, ossessionato dall'amore materno, è un grottesco complesso edipico freudiano; il terzo, con il suo ranch pieno di conigli, sembra uscito da una parabola sufi sulla vanità del possesso. L'ultimo, un vecchio che cattura farfalle con una rete, rappresenta la lezione finale: la vera maestria non sta nel possedere l'arma, ma nel non averne bisogno. El Topo vince, ma ogni vittoria è una sconfitta morale, un passo avanti sul sentiero della violenza che lo allontana dalla vera saggezza. È una critica spietata all'ego maschile, alla ricerca di potere come surrogato della comprensione. Se Sam Peckinpah avesse filmato il suo Mucchio Selvaggio sotto l'effetto di peyote e dopo aver letto il Bardo Thödol, il risultato non sarebbe stato molto diverso.
Visivamente, Jodorowsky opera come un pittore surrealista che ha ereditato la tavolozza di Goya e la composizione di un pittore di retablos messicani. Il sangue non è mai solo sangue: zampilla innaturale, rosso primario contro l'ocra del deserto, si trasforma in rose o nutre la terra. La violenza è iperbolica, teatrale, al punto da diventare astratta, un concetto più che un atto. È l'estetica del "Teatro della Crudeltà" di Antonin Artaud applicata al cinema: scuotere lo spettatore dalle sue certezze borghesi, costringerlo a confrontarsi con l'irrazionale, il sacro e il profano che ribollono sotto la superficie della realtà. Ogni inquadratura è un'allegoria, ogni personaggio deforme una metafora della nostra stessa imperfezione interiore.
Poi, a metà film, avviene la frattura. La grande rottura narrativa che ha lasciato perplessi critici e spettatori, ma che è il cuore pulsante dell'opera. Tradito dalla donna che credeva di amare – una Lilith del deserto che lo spinge verso la violenza per poi abbandonarlo –, El Topo viene crivellato di colpi e lasciato a morire in una sequenza che mima la crocifissione. La sua è una katabasi, una discesa agli inferi. Viene salvato da una comunità di esseri deformi e reietti che vivono in una caverna sotterranea, un grembo ctonio che lo accoglierà per anni. Quando riemerge, non è più il pistolero vestito di nero. È un santone calvo, vestito di bianco, un folle sacro che ricorda il Principe Myškin de L'Idiota di Dostoevskij, o forse un Bodhisattva che ha scelto di ritardare il proprio nirvana per aiutare gli altri.
La seconda parte del film abbandona la struttura del western per diventare un'amara parabola sociale. La missione di El Topo non è più l'auto-perfezionamento egoistico, ma la liberazione collettiva. Deve scavare un tunnel per portare i suoi compagni fuori dalla grotta e verso la "civiltà", una cittadina vicina che si rivela un inferno di depravazione, bigottismo religioso e capitalismo sfrenato. La città è un microcosmo della società moderna vista con gli occhi allucinati della controcultura del 1970: un prete che gioca alla roulette russa con i suoi parrocchiani, un culto fallico, la schiavitù legalizzata. Jodorowsky non usa il bisturi della satira, ma la mazza della farsa grottesca. Quando i reietti finalmente emergono alla luce del sole, la gente "normale" della città, terrorizzata dalla loro alterità, li massacra senza pietà. È una scena di una brutalità quasi insostenibile, un pogrom che condanna non solo l'intolleranza, ma la stessa idea di una società costruita sull'esclusione del "diverso".
Il finale è una delle più potenti immagini di sacrificio della storia del cinema. Di fronte alla strage dei suoi protetti, El Topo, impotente e spezzato, si trasforma in una furia vendicatrice, uccidendo i responsabili. Ma questo ritorno alla violenza è solo un preludio all'atto finale. Raggiunto il centro della città, si cosparge di olio e si dà fuoco, immolandosi in un rogo che è al contempo un atto di espiazione e una protesta suprema, un'immagine che riecheggia la storica auto-immolazione del monaco buddista Thích Quảng Đức. La sua morte non è una fine. Dalla sua tomba cresce il miele, sciamano le api, simboli di dolcezza e di rinascita. Suo figlio, ormai uomo, e la sua nuova compagna partono, portando con sé l'eredità spirituale del padre. Il ciclo continua.
El Topo non sarebbe diventato una leggenda senza il contesto in cui è nato. Fu proiettato per la prima volta a mezzanotte all'Elgin Theater di New York, diventando il capostipite del fenomeno dei "Midnight Movies". Non era un film da vedere e dimenticare; era un evento, un rito di passaggio per la controcultura. Il pubblico tornava a vederlo settimana dopo settimana, come a una messa psichedelica, per decifrarne i simboli, per perdersi nel suo flusso di coscienza. Fu John Lennon, folgorato dalla visione, a convincere il suo manager Allen Klein a comprarne i diritti di distribuzione e a finanziare il successivo, ancor più esoterico, La Montagna Sacra. Questo aneddoto non è un semplice pezzo di trivia, ma la testimonianza di come l'opera di Jodorowsky intercettò perfettamente lo zeitgeist di un'epoca che cercava risposte al di fuori delle religioni tradizionali e delle ideologie politiche, in un territorio dove arte, misticismo e rivoluzione personale convergevano.
Guardare El Topo oggi significa sottoporsi a un'esperienza cinematografica totale e a tratti estenuante. È un'opera imperfetta, a volte didascalica nella sua simbologia, e indubbiamente figlia del suo tempo. Eppure, la sua potenza visionaria è intatta. Jodorowsky non chiede allo spettatore di "capire" il suo film in senso logico, ma di esperirlo, di lasciarsi ferire e guarire dalle sue immagini. È un viaggio iniziatico che usa il linguaggio del western per parlare di alchimia, il corpo per parlare dell'anima, la brutalità per parlare della trascendenza. Più che un film, è un talismano, un oggetto magico che continua a irradiare un'energia arcana e selvaggia. Una cicatrice sulla retina dello spettatore che, come la talpa del titolo, ci ricorda che a volte, per trovare la luce, bisogna prima avere il coraggio di scavare nel buio.
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