El Abrazo de la Serpiente
2015
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Regista
Quando il viaggio diviene metafora di cambiamento, elementare catarsi, sovvertimento di ogni principio acquisito, si entra in una dimensione spirituale in cui l’orizzonte non è dato dalle distanze percorse ma dalla metamorfosi della propria anima. Questo leitmotiv, da sempre caro alla settima arte – si pensi al fluviale incedere del Fitzcarraldo herzoghiano o alla visionaria odyssée psicanalitica di Apocalypse Now, anch’esso figlio spirituale di Conrad – trova in Guerra una declinazione intima, quasi da rito iniziatico, una discesa nelle profondità non solo geografiche ma interiori.
Un’opera intessuta di spiritualità, questa del regista colombiano Ciro Guerra, in cui due viaggi, paralleli nel tempo e nello spazio, intrecciano i propri eventi fino a formare un unico viluppo in cui due uomini di scienza, alla ricerca di risposte, si perdono nella foresta amazzonica fondendosi e dissolvendosi in quegli stessi elementi naturali che intendevano studiare.
Un film davvero suggestivo, girato in un bianco e nero stupefacente, capace di campire con guizzi di penombra e chiaro-scuro una foresta ancestrale, panteistica, labirintica. La scelta del bianco e nero non è mero vezzo estetico, bensì un ponte verso un’atemporalità mistica, che spoglia l’immagine di ogni sovrastruttura cromatica per rivelarne l’essenza primordiale. È un bianco e nero che non sottrae ma aggiunge, conferendo alla giungla una qualità onirica, quasi di incisione d’altri tempi, reminiscenza delle prime esplorazioni fotografiche dell’Ottocento. Ogni ombra, ogni chiarore, sembra danzare in un balletto primordiale, amplificando il senso di un isolamento ancestrale, dove il respiro della natura non è solo sottofondo, ma pulsazione vitale. A questa sapiente costruzione visiva si unisce una tessitura sonora immersiva, in cui il fruscio delle foglie, il verso degli animali, il canto degli sciamani non sono semplici elementi diegetici, ma voci stesse di un ecosistema che sussurra segreti millenari, inghiottendo il razionalismo occidentale in un vortice di percezioni alterate.
La percezione che ne scaturisce è quella di un autentico Cuore di Tenebra trasposto su pellicola, verosimile incarnazione della creatura di Joseph Conrad che il regista riesce a vivificare in dimensione estetica e ontologica. Non è solo la giungla a celare l’orrore, ma l’animo umano stesso, messo a nudo dalla spietatezza di un ambiente che riflette le sue più oscure pulsioni.
Ed è questo forse l’elemento più affascinante del suo film: la rappresentazione dell’allucinata visione di un ambiente selvaggio grondante misticismo e ostilità, groppo inestricabile sul cammino degli uomini e al contempo irresistibile attrattiva con i suoi atavici retaggi.
Brasile, 1909.
Karamakate è uno sciamano indio che vive solitario in un lembo remoto della Foresta Amazzonica dopo che la propria gente è stata sterminata dai feroci produttori di caucciù. Il contesto storico, quello del brutale boom del caucciù tra fine ‘800 e inizio ‘900, si staglia sullo sfondo come un monito silente. Non è un semplice scenario, ma una ferita aperta, un’accusa esplicita alla logica predatoria e colonialista che ha devastato intere culture, sterminato popolazioni indigene e sfruttato senza pietà le risorse naturali. Guerra non si limita a mostrarne gli effetti, ma ne dipinge la genesi morale, la cecità di un progresso che si nutre di distruzione. L’incontro tra i due scienziati bianchi e Karamakate non è solo una ricerca botanica, ma un tentativo, forse tardivo, di ricucire lo strappo tra due mondi, due epistemologie radicalmente diverse, dove la conoscenza occidentale, pur sofisticata, si rivela spesso inadeguata o distruttiva di fronte alla complessità sistemica della sapienza autoctona.
Karamakate ha maturato un profondo rancore per i bianchi e i loro brutali metodi volti soltanto a favorire interessi economici contro ogni elementare forma di rispetto della vita e della natura.
Quando l’indio sarà raggiunto da Manduca, una guida che gli chiede aiuto per curare Theo, botanico olandese e proprio mentore, in preda alla malaria, Karamakate rifiuterà inizialmente per poi accettare di curare l’uomo. Una volta ripresosi lo scienziato convince Karamakate ad accompagnarlo nel luogo dove cresce una pianta dai poteri miracolosi chiamata Yacruna. Lo sciamano accetta a condizione che Manduca e Theo seguano i suoi precetti durante il viaggio. La Yacruna, più che una semplice pianta, diviene un McGuffin intriso di sacralità, il punto focale di una ricerca che è al contempo scientifica, spirituale e di riconciliazione.
Parallelamente inizia un altro viaggio di Karamakate, collocato cronologicamente quarant’anni dopo, con un altro scienziato, un etnografo americano, anch’egli alla ricerca della Yacruna. Sarà occasione per il vecchio indio di confrontarsi con i demoni nascosti nelle pieghe della propria memoria misurandosi con un nuovo viaggio che cambierà per sempre la sua anima.
Tratto da vicende reali che Guerra ha rielaborato attraverso il filtro della sua sensibilità il film si ispira ai viaggi compiuti nella Foresta Amazzonica dagli scienziati Theodor Koch-Grunberg e Richard Evans Schultes. L’opera di Guerra persiste a lungo nella memoria in virtù di un aspetto avventuroso che si miscela magistralmente con la dimensione speculativo spirituale.
Una scena paradigmatica e memorabile è la spiegazione del concetto di Cullachaqui che Karamakate fornisce a Evan: il biologo americano sta sfogliando alcune fotografie scattate e mostra una di queste a Karamakate, si tratta di una fotografia che ritrae lo stesso Karamakate. L’indio si rivolge al ritratto definendolo un Chullachaqui. Per alcune tribù di indios dell’Amazzonia il Chullachaqui è un doppio di noi stessi vuoto, svuotato di ogni essenza, un fantasma con le nostre sembianze che vaga per il mondo. Culture distanti anni luce come gli Indiani d’America, gli Indios dell’Amazzonia o i Masai del centro Africa rifiutano di farsi fotografare per non generare una Replica di se stessi privata di ogni sostanza ma libera di andarsene.
Il Chullachaqui, il Doppelgänger, l’Avatar digitale delle nostre vite online: questo vacuo Fantasma è passato attraverso secoli di storia, culture, tradizioni ma non ha perso il suo (non) significato, il suo muto raccapriccio. In questa vertigine di significati, il Chullachaqui trascende il semplice folclore per assurgere a potente metafora dell’identità nell’era della riproducibilità tecnica. Karamakate, tenendo in mano la propria effigie fotografica, non è solo un indio che rifiuta l’immagine, ma un simbolo di resistenza contro la mercificazione dell’essere, contro la riduzione della persona a dato, a ‘copia’ disincarnata. È un grido silenzioso contro il processo di desostanzializzazione che la modernità, con le sue tecnologie e le sue logiche classificatorie, impone all’individuo. Non è forse l’era digitale, con i suoi profili virtuali e le sue identità frammentate, la quintessenza del Chullachaqui? Una presenza senza corpo, un’ombra che vagola nella rete, svuotata di quella materialità e di quel radicamento che Karamakate difende con ogni fibra del suo essere. Il film di Guerra, pur attingendo a un passato remoto, si fa così profeticamente contemporaneo, interrogando le frontiere della percezione, della memoria e della rappresentazione in un mondo in cui il confine tra autentico e riprodotto si fa sempre più labile, lasciando il Chullachaqui, il nostro doppio fantasma, a incarnare quell’orrore perduto nel tempo ma terribilmente presente.
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