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Eraserhead - La mente che cancella

1977

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Un ronzio industriale, perpetuo e opprimente. Un sibilo di vapore che suona come il respiro agonizzante di un gigante morente. Il primo impatto con Eraserhead non è un'immagine, ma una frequenza, un'onda sonora che si insinua sotto la pelle e colonizza il sistema nervoso. David Lynch, qui al suo esordio nel lungometraggio dopo un'odissea produttiva durata cinque anni, non si limita a mostrarci un incubo; lo orchestra, lo inietta direttamente nel canale uditivo dello spettatore, trasformando la sala cinematografica in una cassa di risonanza per l'ansia cosmica.

Nato da un crogiolo di paure personali e di desolazione urbana – la cosiddetta "Philadelphia Story" di Lynch, il periodo trascorso in una città industriale in piena decadenza che ha impresso a fuoco nella sua immaginazione queste visioni di degrado e paranoia – Eraserhead è un'opera che sfida la categorizzazione con la stessa ostinazione con cui il suo protagonista, Henry Spencer (un indimenticabile e catatonico Jack Nance), sfida la paternità. È un film che si vive come una malattia, una febbre alta che deforma la percezione e rende ogni oggetto quotidiano – un pollo arrosto, un termosifone, una fotografia – un portale verso l'orrore. Henry, con la sua capigliatura elettrificata che sembra un'antenna sintonizzata su frequenze aliene, non è un personaggio nel senso convenzionale del termine; è un nervo scoperto, un sismografo umano che registra le scosse telluriche di un mondo interiore ed esteriore in piena liquefazione.

Il suo appartamento è meno un'abitazione e più una cella psicologica, un non-luogo dove la materia organica e quella inorganica sembrano sul punto di fondersi in una nuova, terrificante forma di vita. È un paesaggio che evoca le visioni più cupe del cinema espressionista tedesco, ma spogliate di ogni romanticismo gotico e immerse in una fuliggine post-industriale che sembra soffocare la luce stessa. La fotografia in bianco e nero di Frederick Elmes e Herbert Cardwell non è una scelta stilistica, è una dichiarazione ontologica: questo è un universo privo di colore perché è un universo privo di speranza, un purgatorio di cemento e ruggine dove l'unica cosa a crescere è il terrore.

La narrazione, se così si può definire, segue una logica onirica che farebbe impallidire i surrealisti storici. Se Un Chien Andalou di Buñuel e Dalí era uno schiaffo dadaista alla borghesia, una sequenza di shock calcolati per scuotere le coscienze, Eraserhead è qualcosa di più primordiale e viscerale. Lynch non gioca con i simboli freudiani, li incarna. Il film è un'immersione totale nel subconscio, un viaggio attraverso strati di paura che la psicanalisi può solo tentare di etichettare. La cena a casa della fidanzata Mary X è una delle sequenze più atroci e comicamente terrificanti della storia del cinema: una dissezione dell'ansia sociale e familiare che trasforma un rito borghese in un Grand Guignol dove le piccole galline "fatte dall'uomo" sanguinano e si contraggono, prefigurando l'orrore biologico che sta per manifestarsi.

E poi, c'è il "bambino". Quella creatura indescrivibile, un feto rettiliano avvolto in bende, con un collo da tartaruga e un lamento costante e straziante, è una delle più potenti e disturbanti metafore della paternità mai concepite. È l'incarnazione della paura del legame, della responsabilità, della mutazione che la genitorialità impone all'individuo. Non è un figlio, è un fardello di carne lamentosa, un golem biologico che incatena Henry alla sua squallida realtà. La sua esistenza è un affronto alla natura, un prodotto difettoso di un'unione priva di amore, consumata in un mondo sterile. Il suo pianto incessante è la colonna sonora della colpa di Henry, un suono che non può essere ignorato né compreso, e che lo spinge sull'orlo di una follia già latente. In questo, Henry Spencer diventa un cugino spirituale del Gregor Samsa di Kafka: entrambi si svegliano un mattino trasformati, non nel corpo ma nella condizione, intrappolati in una nuova esistenza mostruosa da cui non c'è via di fuga.

Ma la vera rivoluzione di Eraserhead risiede nel suo sound design, curato dallo stesso Lynch con Alan Splet. È un'architettura sonora che precede e informa l'immagine. Il ronzio costante, il fischio delle tubature, il clangore metallico, lo squittio organico: ogni suono contribuisce a creare un paesaggio sonoro dell'angoscia che è tanto importante quanto la fotografia. È un film che andrebbe quasi "ascoltato" ad occhi chiusi per comprenderne la potenza. Lynch capisce, con un'intuizione che diventerà il suo marchio di fabbrica, che il vero terrore non è ciò che si vede, ma ciò che si sente e, soprattutto, ciò che non si comprende. Il suono in Eraserhead non accompagna l'azione, è l'azione: è la voce del mondo che si sta disfacendo.

Parallelamente alla discesa di Henry nell'abisso, Lynch intercala immagini enigmatiche che sembrano appartenere a un'altra dimensione: l'Uomo nel Pianeta che manovra leve cosmiche e la Dama nel Termosifone che canta una melodia malinconica e rassicurante ("In Heaven, everything is fine"). Questi non sono inserti casuali, ma contrappunti mitologici alla miseria terrena di Henry. L'Uomo nel Pianeta rappresenta forse un demiurgo indifferente, un macchinista cosmico che controlla il destino con la stessa freddezza con cui un operaio controlla un altoforno. La Dama nel Termosifone, con le sue guance deformi e il suo sorriso serafico, è l'unica, effimera via di fuga: un paradiso artificiale, una fantasia di calore e accettazione che può esistere solo dietro le sbarre di un radiatore. È la promessa di un'obliterazione beata, un annullamento che è l'opposto speculare della creazione mostruosa che infesta la stanza di Henry. In queste figure si può leggere un'eco distorta della pittura di Francis Bacon: la stessa sensazione di carne intrappolata, di figure contorte in stanze claustrofobiche che sono allo stesso tempo palcoscenici e prigioni.

Il titolo italiano, La mente che cancella, si rivela una chiave di lettura sorprendentemente acuta. L'atto di "cancellare" con la gomma da matita, che vediamo nel prologo cosmico del film, è il gesto fondamentale. Henry non vuole solo liberarsi del figlio; vuole cancellare la sua stessa esistenza, annullare l'errore biologico e cosmico che lo ha portato a quel punto. L'apice del film, quando finalmente agisce sulla creatura con un paio di forbici, non è un semplice atto di violenza, ma un tentativo disperato di "cancellare" la realtà, di forzare un cortocircuito nel sistema che lo tiene prigioniero. La conseguente implosione dell'universo – o forse solo della sua testa – è la liberazione definitiva, l'abbraccio con la Dama nel Termosifone, il raggiungimento di quel "cielo" che è pura luce bianca, assenza di forma, suono e responsabilità.

Eraserhead è molto più di un semplice "midnight movie" o di un film di culto. È un'opera fondativa, il Big Bang da cui è scaturito l'intero universo lynchiano. Contiene in nuce tutti i temi che il regista esplorerà in seguito: la fragilità del confine tra realtà e sogno, la corruzione che si annida sotto la superficie della normalità, il potere evocativo e terrificante del suono. È un poema industriale sulla paura della carne e del sangue, un'elegia in bianco e nero per un'umanità alienata e terrorizzata dai propri stessi processi biologici. Vedere Eraserhead non è un'esperienza piacevole, né è pensata per esserlo. È un battesimo del fuoco, un rito di passaggio che lascia una macchia indelebile sulla retina e nella psiche. È il genere di film che non si limita a raccontare un incubo: te lo fa vivere, e poi ti lascia solo, nel buio, ad ascoltare il ronzio del tuo stesso frigorifero, chiedendoti se non sia, anche quello, il respiro di un mondo che sta lentamente, inesorabilmente, andando in pezzi.

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