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Il pianeta selvaggio

1973

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Un'allucinazione febbrile partorita da un'epoca febbrile. Guardare Il pianeta selvaggio (La Planète sauvage, 1973) di René Laloux è un'esperienza che trascende la semplice visione cinematografica per farsi immersione in un ecosistema visivo e sonoro radicalmente altro. È un tuffo in un bestiario surrealista che sembra emerso dalle tele di Hieronymus Bosch dopo una jam session con Moebius, un mondo alieno che non si limita a presentare creature bizzarre, ma costruisce una logica biologica e sociale coerente nella sua assoluta stranezza. Qui, la fantascienza abbandona i lustrini dell'epopea spaziale per diventare strumento di indagine filosofica, un bisturi animato che incide la nozione stessa di umanità.

La pellicola ci scaraventa, senza preamboli né manuali di istruzioni, sul pianeta Ygam, dominato dai Draag, giganti blu dalla pelle liscia, gli occhi rossi e le orecchie a forma di pinna. Ieratici, impassibili, dediti a complesse e astratte forme di meditazione che sembrano governare la loro stessa esistenza, i Draag trattano gli esseri umani, qui chiamati Om (un gioco di parole fin troppo evidente con il francese "homme"), alla stregua di animali domestici. Li tengono al guinzaglio, li vestono con ridicoli costumi, li fanno combattere per divertimento o, peggio, li considerano parassiti da sterminare periodicamente con processi di "disinfestazione". Il nostro protagonista è Terr, un Om "addomesticato" dalla giovane Tiwa, figlia di un importante dignitario Draag. Ma il giocattolo, si sa, è destinato a rompersi o a fuggire. E quando Terr fugge portando con sé l'auricolare per l'apprendimento Draag, il furto della conoscenza, un atto prometeico inscenato attraverso un grottesco dispositivo di apprendimento neurale, diventa il catalizzatore della rivoluzione epistemologica prima ancora che militare.

L'impatto visivo del film è, ancora oggi, sbalorditivo. Lo stile è quello inconfondibile di Roland Topor, artista, scrittore e drammaturgo poliedrico, co-fondatore del movimento "Panico" con Jodorowsky e Arrabal. Le sue illustrazioni, animate con la tecnica del cutout (figure ritagliate e mosse fotogramma per fotogramma), conferiscono al film un'andatura sognante e al contempo meccanica, un movimento a scatti che nega il realismo per abbracciare l'incubo lucido. Ogni creatura, ogni pianta, ogni paesaggio di Ygam è un'invenzione perturbante, una sfida alla nostra tassonomia terrestre. Vediamo predatori che si srotolano come tappeti per inghiottire le prede, flora che cattura esseri volanti con tentacoli cristallini, entità che si accoppiano in rituali tanto affascinanti quanto grotteschi. L'animazione di Laloux non cerca la fluidità disneyana; al contrario, esalta la piattezza e l'artificiosità del disegno di Topor, trasformando ogni scena in un arazzo vivente, un diorama animato da una volontà arcana e incomprensibile. È un'estetica che deve tanto al surrealismo quanto alle miniature medievali, una processione di simboli e allegorie che si muovono con la lentezza di un rito.

Questa alienazione visiva è amplificata a dismisura dalla colonna sonora di Alain Goraguer. Lungi dall'essere un semplice accompagnamento, la partitura è l'anima pulsante e psichedelica del film. Un tessuto sonoro che fonde jazz, funk cosmico e orchestrazioni barocche, dove chitarre wah-wah duettano con clavicembali, flauti eterei si librano su linee di basso telluriche e percussioni tribali scandiscono il ritmo di una lotta per la sopravvivenza. La musica di Goraguer non descrive l'azione, la incarna. È il linguaggio emotivo degli Om, il lamento della loro schiavitù e l'inno della loro ribellione. Ascoltare il tema principale è come sintonizzarsi su una stazione radio interstellare che trasmette il blues di una specie oppressa, un suono che è diventato, a ragione, oggetto di culto e di innumerevoli campionamenti nella musica hip-hop, a testimonianza della sua intramontabile potenza evocativa.

Ma Il pianeta selvaggio è molto più di un esercizio di stile audiovisivo. È un'allegoria stratificata e potente, che si presta a molteplici livelli di lettura. La più immediata, naturalmente, è quella della lotta contro l'oppressione, del colonialismo e del razzismo. Gli Om, piccoli, disorganizzati e considerati sub-umani, sono il riflesso di ogni popolo sottomesso dalla protervia di una civiltà tecnologicamente superiore. La loro lotta per essere riconosciuti non come animali, ma come esseri senzienti, è un tema universale. Eppure, il film evita facili manicheismi. I Draag non sono semplicemente "cattivi"; sono descritti con una distanza quasi scientifica. La loro crudeltà non nasce tanto dalla malvagità, quanto da un'abissale indifferenza, la stessa che un essere umano potrebbe provare schiacciando una formica. Questa prospettiva, che ci costringe a vedere l'umanità dal punto di vista di un potere soverchiante e incomprensibile, è forse l'intuizione più lovecraftiana del film: il vero orrore non è l'odio, ma l'assoluta irrilevanza.

Tuttavia, è impossibile scindere l'opera dal suo contesto produttivo. Realizzato in coproduzione con la Cecoslovacchia presso i prestigiosi studi di animazione di Jiří Trnka a Praga, il film porta le cicatrici della Storia. È difficile non leggere in filigrana, nella dinamica tra i giganteschi e apatici Draag e i piccoli e tenaci Om, un'eco tragica della Primavera di Praga del 1968 e della successiva, brutale repressione sovietica. La "disinfestazione" degli Om da parte delle macchine Draag risuona con l'immagine dei carri armati per le strade di una capitale europea. In quest'ottica, il pianeta Ygam diventa una scacchiera politica dove la lotta per la libertà assume contorni ancora più disperati e concreti. La conoscenza rubata diventa l'unica arma contro una forza bruta che sembra invincibile, un tema che avrà avuto una risonanza particolare per gli artisti che lavoravano dietro la cortina di ferro.

Andando ancora più in profondità, il film si avventura in territori meta-testuali che dialogano con i grandi archetipi della fantascienza. La dinamica di scala tra le due specie evoca immediatamente i Viaggi di Gulliver di Swift, ma ne rovescia la satira sociale in una meditazione sulla coscienza. Quando Terr, grazie alla tecnologia Draag, apprende la loro scienza, la loro filosofia e la loro storia, la ribellione degli Om cessa di essere una semplice guerriglia per diventare una rivoluzione culturale. Si pongono le basi non solo per la liberazione fisica, ma per un salto evolutivo. Il finale, con la scoperta del segreto della meditazione Draag e il raggiungimento di una fragile coesistenza, suggerisce un'evoluzione che non è conquista, ma sintesi. Un finale che ricorda, per ambizione concettuale se non per estetica, l'odissea cosmica di Bowman in 2001 di Kubrick. In entrambi i casi, l'incontro con l'Altro radicale porta a una trasfigurazione della specie, a un nuovo stadio dell'essere.

Più di un semplice cartone animato, più di un film di fantascienza, Il pianeta selvaggio è un poema filosofico animato. È un'opera che ci interroga sul nostro posto nell'universo, sulla nostra definizione di intelligenza e sul nostro rapporto con le altre specie che abitano (o potrebbero abitare) il cosmo. La sua stranezza non è un vezzo estetico, ma una precisa scelta ontologica: solo mostrandoci un mondo così radicalmente alieno, Laloux e Topor possono costringerci a guardare la nostra stessa realtà con occhi nuovi, a mettere in discussione le gerarchie e le certezze che diamo per scontate. È un'esperienza cinematografica che non si esaurisce con i titoli di coda, ma che continua a depositare i suoi semi perturbanti nell'inconscio, crescendo e germogliando in forme sempre nuove a ogni visione. Un monolite animato che continua a interrogarci dalla sua orbita remota e aliena.

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