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Femmina folle

1945

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Un veleno stillato in Technicolor. Se il film noir è un’architettura di ombre, un mondo morale in bancarotta annegato in notti perenni e piogge acide, "Femmina folle" di John M. Stahl è la sua antitesi eretica, la sua luminosa e terrificante negazione. È un noir solare, un incubo che si consuma non nei vicoli malfamati di una metropoli corrotta, ma sotto il cielo abbagliante del New Mexico e nelle acque cristalline di un lago idilliaco. La pellicola di Stahl, tratta dal romanzo bestseller di Ben Ames Williams, scardina le convenzioni del genere con una tale sfrontatezza estetica da risultare, ancora oggi, un’esperienza profondamente perturbante. La sua audacia non risiede nell'oscurità, ma nella sua assenza; il male qui non si nasconde, ma si pavoneggia in piena luce, indossando gli abiti più eleganti e sfoggiando il sorriso più seducente.

La fotografia di Leon Shamroy, che gli valse un meritatissimo Oscar, è il primo, fondamentale, strumento di questa sovversione. Dimenticate il chiaroscuro espressionista di un John Alton; qui il Technicolor non è un vezzo estetico, ma una dichiarazione d’intenti. I colori sono saturi, quasi violenti nella loro perfezione: il rosso cremisi delle labbra di Ellen Berent, il blu cobalto del lago, il verde lussureggiante della foresta. È un iperrealismo cromatico che evoca la pittura di Edward Hopper, ma spogliata della sua malinconica solitudine e ricaricata di una tensione nevrotica. Come nelle tele di Hopper, la superficie è impeccabile, quasi laccata, ma sotto di essa ribolle un abisso di disperazione e follia. Questa scelta estetica crea un cortocircuito cognitivo nello spettatore: la forma, quella del lussuoso melodramma romantico, è in perenne, stridente conflitto con la sostanza, un agghiacciante thriller psicologico. È il cinema che fa a pezzi il sogno americano dall'interno, usando i suoi stessi strumenti cromatici e narrativi, anticipando di quasi un decennio le autopsie suburbane che Douglas Sirk avrebbe condotto con altrettanta, magnifica, crudeltà visiva.

Al centro di questo universo saturo e patinato si erge una delle figure più memorabili e terrificanti della storia del cinema: Ellen Berent, incarnata da una Gene Tierney di una bellezza quasi soprannaturale, eterea e letale. Ellen non è la classica femme fatale del noir. Non è la Barbara Stanwyck di "La fiamma del peccato", mossa dall'avidità e da un piano criminale meticoloso. La sua motivazione è infinitamente più primordiale e terrificante: un amore assoluto, totalizzante, patologico. Un amore che non ammette terzi, che non tollera rivali, siano essi un fratello disabile, un figlio non ancora nato o il ricordo di un padre defunto. La sua possessività è così divorante da trasformarla in una sorta di divinità domestica e terrificante, una Medea in abiti da cocktail che non esita a sacrificare tutto e tutti sull'altare della propria esclusività affettiva.

La performance di Gene Tierney è un capolavoro di sottrazione glaciale. Il suo volto, di una perfezione quasi innaturale, diventa una maschera impenetrabile dietro cui si agita un'anima mostruosa. La sua malvagità non si manifesta in esplosioni di rabbia, ma in un controllo gelido, in uno sguardo fisso, in un'immobilità che è più spaventosa di qualsiasi urlo. È l'incarnazione di un concetto freudiano fatto carne e colore, un "perturbante" che nasce dalla trasformazione dell'archetipo della moglie devota e innamorata nel suo esatto opposto, senza che l'apparenza esteriore cambi di una virgola. Il titolo italiano, "Femmina folle", è brutalmente diretto ma forse meno sottile dell'originale, "Leave Her to Heaven". Quest'ultimo, tratto dall'Amleto – un'eco letteraria che eleva immediatamente il discorso –, suggerisce una malvagità così profonda da essere al di là della giurisdizione umana, un male che solo un giudizio divino può affrontare.

La sequenza più celebre del film, quella della morte del giovane cognato Danny nelle acque del lago, è una lezione di regia e di crudeltà psicologica che Hitchcock avrebbe studiato con ammirazione. Stahl orchestra la scena con una maestria diabolica. La macchina da presa tiene Ellen e lo spettatore a una distanza quasi clinica. Non c'è musica a sottolineare il dramma. C'è solo il suono dell'acqua, il respiro affannoso del ragazzo e il volto impassibile di Ellen, nascosto dietro un paio di occhiali da sole che la rendono simile a un idolo impassibile e crudele. Il suo omicidio è un atto di omissione, un delitto commesso attraverso l'immobilità. È la quintessenza del suo personaggio: una forza distruttiva passiva, che annienta semplicemente rifiutando di agire, osservando il mondo piegarsi alla sua volontà possessiva. In quel momento, il paesaggio idilliaco si trasforma in un teatro del macabro, la natura stessa diventa complice silenziosa di un atto disumano. È la deflagrazione del gotico americano non tra le mura di un maniero diroccato, ma sotto un sole accecante, e per questo è ancora più disturbante.

Il film può essere letto anche come una potente allegoria delle ansie sociali dell'America post-bellica. In un'epoca in cui si celebrava il ritorno all'ordine domestico e la figura della moglie come angelo del focolare, "Femmina folle" presenta il focolare come una trappola mortale e il suo angelo come un demone. Richard Harland (un Cornel Wilde perfettamente funzionale nel suo ruolo di uomo amato e progressivamente prosciugato) è l'archetipo del maschio americano di successo – scrittore, affascinante, sicuro di sé – che si ritrova intrappolato da una forza che non può comprendere né controllare. La sua casa sul lago, simbolo del sogno americano raggiunto, diventa la sua prigione dorata. Ellen, con la sua ossessione per un amore esclusivo e isolato dal resto del mondo, rappresenta la perversione dell'ideale romantico, la sua trasformazione in un'ideologia soffocante e letale.

In questo senso, il film dialoga a distanza con la tradizione letteraria del romanzo gotico, con le eroine di "Cime Tempestose" o con la prima, folle, moglie di Rochester in "Jane Eyre". Come quelle figure, Ellen è una forza della natura passionale e indomabile che minaccia di distruggere l'ordine razionale e sociale rappresentato dall'uomo. Ma a differenza di loro, è inserita in un contesto di modernità borghese, il che rende il suo impatto ancora più stridente. La sua follia non è quella romantica e selvaggia di Catherine Earnshaw; è una psicosi calcolatrice e lucida, mascherata da una normalità impeccabile.

Anche la struttura narrativa, che si chiude con un processo in tribunale, è un tentativo disperato di riportare la follia irrazionale di Ellen all'interno delle categorie logiche della legge. Ma persino da morta, Ellen continua a manipolare gli eventi, con un ultimo, diabolico piano che estende la sua influenza distruttiva oltre la tomba. È la dimostrazione finale che il suo tipo di male, radicato nelle profondità della psiche umana e dell'amore stesso, non può essere semplicemente processato o contenuto. Può solo essere lasciato, appunto, al cielo.

"Femmina folle" è un'opera anomala e geniale, un capolavoro che sfida le etichette. È un melodramma che fa più paura di un horror, un film noir che abbaglia con la luce, una storia d'amore che è un trattato sulla patologia della possessione. È la prova che l'abisso non si spalanca solo nel buio, ma può guardarci dritto negli occhi, con uno sguardo bellissimo e vuoto, sotto il sole più caldo dell'estate.

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