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Fino all'Ultimo Respiro

1960

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Godard immerge il suo fulminante sguardo nel caos metropolitano, nell’alienazione e nell’anarchia della microcriminalità, con sguardo sardonico e irriverente. Non si tratta di una mera cronaca, bensì di una disamina incisiva dell'esistenzialismo post-bellico, un'epoca in cui le certezze crollavano e l'individuo si trovava a navigare un mondo privo di punti cardinali, spinto da un impulso quasi nichilista. Questo è il cinema di un auteur che non teme di infrangere le convenzioni, trasformando il realismo sporco della strada in un palcoscenico per un dramma filosofico mascherato da polar.

Il risultato è un’opera di un fulgore abbacinante, dove ironia, nonsense e amore per il surreale creano dialoghi divertenti, in cui perizia alla cinepresa e i salti semantici ne individuano la bellezza primordiale. Quella bellezza non è levigata o patinata come nel cinema classico hollywoodiano, ma cruda, vibrante, quasi grezza, come un diamante appena estratto. È la bellezza della rottura, della disobbedienza stilistica che diventerà presto la firma distintiva della Nouvelle Vague. I celebri jump cuts, all'epoca visti come un errore tecnico, non sono qui casuali disattenzioni, bensì scelte deliberatamente anticonvenzionali che infrangono la continuità spazio-temporale per accelerare il ritmo narrativo e, soprattutto, per scuotere lo spettatore dalla sua passività, rendendolo consapevole della costruzione filmica. È un pugno nello stomaco alla retorica cinematografica del tempo, una dichiarazione che il cinema può e deve essere qualcosa di più di una semplice narrazione lineare. Godard, con questo esordio folgorante, attinge non solo alla tradizione del film noir americano – di cui era un appassionato critico – ma la reinterpreta attraverso una lente squisitamente europea, intrisa di influenze letterarie da Albert Camus a Louis-Ferdinand Céline.

Jean Paul Belmondo è un ladruncolo d’auto che uccide un poliziotto dopo essere stato fermato per un’infrazione stradale. Michel Poiccard, il suo personaggio, non è l'eroe romantico o il villain monolitico: è un antieroe disilluso, un flâneur moderno e amorale, la cui identità è in parte una performance, un'imitazione spavalda e malriuscita di Humphrey Bogart, il suo idolo cinematografico. Non a caso, lo vediamo accendersi una sigaretta strofinando il pollice sulle labbra, un gesto rubato all'icona del film noir. Questa citazione esplicita non è un semplice omaggio, ma un commento meta-cinematografico sulla natura stessa del personaggio e del cinema: siamo tutti attori in una recita, e la realtà è spesso un'imitazione dell'arte.

Inizia una fuga in una Parigi anarchica e brulicante, in cui il protagonista ritroverà un sentimento totale e straniante nei confronti di una sua vecchia fiamma, interpretata dalla bellissima Jean Seberg. Patricia Franchini, la studentessa americana, incarna la modernità e un'indipendenza femminile che sfida le convenzioni dell'epoca. Il suo inglese scandito, il suo taglio di capelli alla maschietta, la sua ambiguità morale la rendono tanto affascinante quanto enigmatica. Il loro rapporto non è quello passionale e totalizzante del cinema melodrammatico, ma un tango di seduzione e repulsione, di dipendenza e desiderio di libertà, un duello verbale e fisico in cui ogni parola, ogni gesto, è carico di un sottile gioco di potere.

Ne nascerà un amore ironico, tra buffi litigi e promesse eterne, tra grotteschi inseguimenti e macchinose scene d’amore. Godard sfrutta la spontaneità dei suoi attori e le risorse limitate della produzione – il film fu girato con una troupe ridotta, spesso senza sonoro sincronizzato e con dialoghi improvvisati sul set – per creare un'atmosfera di autenticità grezza. Le "macchinose scene d'amore", più che passionali, appaiono come coreografie studiate, quasi un obbligo narrativo a cui i personaggi si conformano con una certa inerzia, sottolineando la loro incapacità di autentica connessione in un mondo di apparenze e di fugaci piaceri. La celebre sequenza nella camera d'albergo, lunga e dialogica, è un microcosmo della loro relazione: un'altalena tra intimità e distanza, tra un desiderio genuino e una fredda razionalità che, alla fine, prevarrà. Questa scena, in particolare, è diventata un'icona del cinema godardiano, dimostrando come l'assenza di azione possa essere più potente di mille inseguimenti.

Seguendo questa strana coppia il film approda al suo tragico epilogo. Un epilogo che non è un colpo di scena drammatico, ma la logica conclusione di un destino già scritto, un'ineluttabilità che permea l'intera narrazione. La fine di Michel non è tanto una punizione per i suoi crimini, quanto la dissipazione inevitabile di un'esistenza randagia, un sussulto finale prima del silenzio.

La scena finale è memorabile nella sua nettezza stilistica: Belmondo colpito a morte insegue invano un’auto fino a crollare a terra, in mezzo ad un incrocio, Jean Seberg sopraggiunge e lo guarda morire quasi con distacco, poi con tenerezza, chiedendosi quali siano state le sue ultime parole, si sfiora le labbra con movimento circolare del pollice, guardando intensamente nell’obiettivo. Il suo sguardo diretto allo spettatore è la rottura finale della quarta parete, un gesto meta-cinematografico che demolisce l'illusione filmica e ci rende complici, o forse testimoni impotenti, di un dramma che è allo stesso tempo finzione e riflesso della realtà. Quella carezza sul labbro, un gesto ambiguo e iconico, è un enigma che ha generato infinite interpretazioni: è il ricordo del bacio, un tic nervoso, la riproduzione del gesto del "dégueulasse" (schifoso) che Michel le aveva rivolto? Qualunque sia la sua origine, è l'ultimo sussulto di un'emozione complessa e contraddittoria, un addio a un amore effimero e a un'innocenza perduta.

Un film paradigmatico per capire cosa sia stata la Nouvelle Vague e chi le abbia dato linfa artistica e in quale misura. "À bout de souffle", il cui titolo originale evoca un senso di affanno e disperazione, non è solo una pietra miliare del cinema francese; è un manifesto, un terremoto culturale che ha ridefinito il linguaggio cinematografico per le generazioni a venire. Senza questo film, l'approccio autoriale, la libertà narrativa e l'uso sovversivo della forma sarebbero stati impensabili per molti dei registi che lo hanno seguito, da Martin Scorsese a Quentin Tarantino, per non parlare di un'intera ondata di cinema indipendente che ha trovato in Godard il suo padrino spirituale. Un'opera che, a più di sessant'anni dalla sua uscita, conserva intatta la sua potenza dirompente e la sua capacità di farci riflettere sul cinema, sulla vita e sulla sfuggente natura dell'identità.

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