Fitzcarraldo
1982
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Regista
Uno dei film più folli mai realizzati, e non potevano che realizzarlo Werner Herzog e Klaus Kinski.
Folle in primo luogo perchè ha richiesto per la sua realizzazione uno sforzo immane, esattamente come quello narrato nella storia: due morti, un numero imprecisato di feriti, quattro milioni di euro bruciati nella produzione (per pagare i quali Herzog si dovette impegnare praticamente tutto), tre anni di lavorazione in mezzo alla giungla. La leggenda che avvolge la genesi di Fitzcarraldo è, a suo modo, un’opera d’arte parallela, un documentario non scritto sull’ostinazione umana. Herzog, con la sua ineguagliabile e a tratti spietata tenacia, incarnò egli stesso il suo Fitzcarraldo, non esitando a sfidare la logistica impossibile e la stessa Natura, spostando fisicamente una nave di 320 tonnellate su per una collina della giungla per ottanta giorni. Fu un calvario produttivo così estremo da rendere quasi secondaria la travagliata fase iniziale con Jason Robards e Mick Jagger, poi abbandonati a causa di una malattia del primo e inconciliabili impegni del secondo. Questa folle epopea di volontà e ossessione ha trovato la sua perfetta metanarrazione nel celebre documentario Burden of Dreams di Les Blank, che non fa che amplificare l’aura quasi mitologica del film finito, rendendo il confine tra finzione e realtà produttiva una sublime sfumatura.
In secondo luogo folle perchè a causa, o forse per merito, della sregolatezza di Kinski e di una sceneggiatura claudicante risulta un film grottescamente disunito, disomogeneo, ma proprio per questo immensamente affascinante. La ‘sregolatezza’ di Kinski non fu un mero capriccio da primadonna, ma una forza tellurica che Herzog, l’unico in grado di domarla o quanto meno di contenerla, seppe incanalare. L'attore, con la sua aura sulfurea e il suo metodo destrutturato – se così si può definire l’assenza di un metodo che non fosse l’immedesimazione totale e spesso distruttiva – dona a Fitzcarraldo una visceralità e una furia quasi messianica che trascende la scrittura. La sceneggiatura, più che claudicante, appare volutamente ellittica, quasi un canovaccio per l’improvvisazione di un dramma esistenziale che si nutre delle stesse sfide e follie affrontate sul set. Questa disomogeneità, lungi dall'essere un difetto, diventa la cifra stilistica di un’opera che riflette il caos primigenio della giungla e l’animo tempestoso del suo protagonista, un uomo la cui grandezza è inseparabile dalla sua aberrazione.
Fitzcarraldo narra la storia di un uomo che vuole costruire un teatro d’opera in una cittadina sperduta nella giungla amazzonica per rendere omaggio al suo grande mito: Caruso. Il suo non è solo un omaggio al tenore, ma un atto di fede assoluto e quasi blasfemo nei confronti dell’Arte con la maiuscola, un'imposizione della cultura europea nel cuore pulsante e indifferente della natura selvaggia.
Fitzcarraldo è un viaggio dentro l’anima di questo personaggio che, come per una sorta di processo osmotico, si identifica e si fonde con il suo magistrale interprete: Klaus Kinski. I suoi sforzi titanici per portare la cultura in mezzo al nulla diverranno parte integrante di questa piccola grande epopea. Il suo grande sogno si identifica in un’immensa cattedrale nel deserto, un’opera a se stante, costruita per rendere omaggio ai grandi della lirica senza alcun legame con l’ambiente circostante. È la quintessenza dell'aspirazione umana all'elevazione, un'assurda sfida prometeica lanciata contro l'inevitabile. Fitzcarraldo è un moderno Sisifo che spinge il suo masso – in questo caso un transatlantico – non verso una cima sterile ma verso l'utopia di un'armonia lirica in un luogo dove solo il fragore della natura domina. La sua visione, così eccentrica e sconfinata, trova eco in quel filone dell'espressionismo tedesco e poi del Nuovo Cinema Tedesco che Herzog stesso ha contribuito a definire, dove l'uomo, spesso solitario e megalomane, si confronta con l'assurdo e l'incommensurabile, come già accadeva nel delirio conquistador di Lope de Aguirre in Aguirre, furore di Dio.
Per realizzare il suo sogno non esiterà a far transitare una barca per il trasporto del Caucciù in un vasto tratto collinare nel bel mezzo della foresta amazzonica. Le scene in cui gli indios e la ciurma lavorano con argani e carrucole per trainare l’immenso scafo in cima alla collina sono emblematiche della caparbietà umana avvinta ad una surreale follia. Questa sequenza, che da sola varrebbe l'intero film, è un prodigio di realismo e al contempo un'allegoria potente. È la rappresentazione visiva di un delirio collettivo, un inno all'ostinazione, un'ode alla capacità umana di perseguire l'impossibile, che sia per brama di profitto o per una pura e inspiegabile mania artistica. Il rapporto con gli indios, inizialmente strumentale, evolve in una sorta di simbiosi forzata, quasi che la loro sottomissione al volere di Fitzcarraldo non fosse solo frutto di imposizione, ma anche di una loro ancestrale comprensione di un disegno più grande, o semplicemente di una resa fatalistica all'ennesima pazzia dell'uomo bianco. La montagna diventa un ostacolo biblico, la nave un arca che, invece di salvare, sfida.
Capolavoro di Werner Herzog e famelica interpretazione di Kinski. Un'opera che, per la sua stessa genesi e per la potenza delle sue immagini, si impone come un monumento alla forza del desiderio e all'illusione.
Scena memorabile: Fitzcarraldo che, superate le avversità, al suo arrivo si erge sulla tolda della nave facendo risuonare le note di Bellini con il suo grammofono. Quel momento finale, un trionfo effimero e profondamente malinconico, sigilla l'essenza del film. Il canto lirico che si propaga sulle acque del Rio delle Amazzoni è l'affermazione suprema di un sogno realizzato, per quanto fugace, un sublime assurdo che ha plasmato il suo stesso creatore e il suo interprete in una leggenda immortale, un'eco persistente della folle e meravigliosa ambizione umana.
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