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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Follie d'inverno

1936

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La memoria è un palinsesto. Un manoscritto su cui la vita incide, cancella e riscrive, lasciando le tracce spettrali delle storie precedenti sotto la superficie del presente. Pochi film hanno esplorato questa architettura fragile e stratificata dell'identità con la grazia devastante di Follie d'inverno (titolo originale Random Harvest, "raccolto casuale", infinitamente più evocativo), capolavoro di Mervyn LeRoy che, sotto la patina dorata del melodramma MGM, nasconde un abisso di interrogativi quasi filosofici. La pellicola orchestra la più romantica e lancinante delle amnesie, trasformando la perdita della memoria non in un semplice espediente narrativo, ma nel motore di una discesa nel sé scisso, un viaggio degno di un racconto di Hoffmann o di un dramma pirandelliano mascherato da sontuoso woman's picture.

Siamo di fronte a un'opera che vive di una dualità quasi teologica. Da un lato, Charles Rainier (Ronald Colman, la cui voce da sola è un monumento sonoro alla malinconia), ricco erede e capitano d'industria, figura pubblica, simbolo di un'Inghilterra vittoriosa ma esausta dopo la Grande Guerra. Dall'altro, "Smithy", il suo alter ego smarrito, l'anima nuda liberata dalle convenzioni sociali e dal peso del lignaggio, un uomo-bambino che trova rifugio e amore tra le braccia di Paula (una Greer Garson sublime, la cui intera performance è un saggio sulla resilienza del cuore). Il film non si limita a contrapporre questi due stati dell'essere; li intreccia in un doloroso contrappunto, suggerendo che la nostra identità "ufficiale" sia forse solo la versione più ingombrante e meno autentica di noi stessi. La vita idilliaca e bohémien di Smithy e Paula in un cottage sperduto è un Eden fragile, un'utopia sentimentale strappata al caos della storia, la cui perdita non è solo una tragedia personale ma l'allegoria di un'innocenza collettiva irrecuperabile.

L'intera narrazione è, in essenza, una versione cinematografica e popolare della recherche proustiana. Charles Rainier, tornato alla sua vita precedente ma privo di tre anni di ricordi, vaga per i corridoi della sua opulenta esistenza come un fantasma alla ricerca del proprio corpo. È perseguitato non da un ricordo, ma dall'assenza di un ricordo, da una sensazione di vuoto che nessuna logica o ricchezza può colmare. Ogni suo sforzo conscio di "ricordare" fallisce miseramente. La memoria, ci insegna il film con una raffinatezza psicologica inaudita per l'epoca, non risponde ai comandi. È un animale selvatico che emerge solo se attirato da un odore, un suono, una sensazione tattile. L'intera seconda parte del film è una magistrale costruzione della suspense emotiva, un'attesa spasmodica per la madeleine che finalmente sbloccherà il tempo perduto. E la chiave del cottage, quel piccolo oggetto metallico che Charles conserva senza saperne il perché, diventa un feticcio quasi surreale, un correlativo oggettivo carico di un potenziale epifanico esplosivo, degno di un poema di Montale.

Rilasciato nel 1942, in pieno Secondo Conflitto Mondiale, Follie d'inverno non può e non deve essere letto al di fuori del suo contesto. Per un pubblico che viveva il trauma quotidiano della guerra, dei bombardamenti, della perdita e della separazione, la storia di un soldato della guerra precedente, traumatizzato e disconnesso dal suo passato, risuonava con una potenza inimmaginabile. Il film offriva un duplice conforto: da un lato, la catarsi di vedere rappresentato il dolore della frattura interiore; dall'altro, la speranza, quasi una fede laica, che l'amore potesse agire da ponte attraverso gli abissi della memoria e della storia. Paula non è solo una donna innamorata; è la custode della fiamma, la vestale di un passato felice che si rifiuta di lasciare estinguere. La sua pazienza decennale, la sua scelta di restare accanto a Charles come sua segretaria, Margaret, è un atto di devozione così estremo da sfiorare il sacro, riecheggiando miti classici come quello di Penelope, ma traslato nel pragmatismo di un ufficio direzionale.

La regia di LeRoy è di una classicità esemplare, al servizio totale della storia e dei suoi divi. L'universo MGM si dispiega in tutta la sua magnificenza: le scenografie di Cedric Gibbons sono opulente e precise, la fotografia di Joseph Ruttenberg avvolge i protagonisti in un chiaroscuro che è metafora della loro condizione interiore. Ma LeRoy è più astuto di un semplice artigiano. Usa la profondità di campo non solo per creare quadri eleganti, ma per isolare i personaggi nel loro sfarzo, sottolineando la solitudine di Charles. E quando orchestra la sequenza finale, il ritorno al villaggio, lo fa con la precisione di un direttore d'orchestra che guida il suo pubblico verso un crescendo emotivo inevitabile e purificatore. I suoni ovattati, le foglie autunnali, il cigolio di un cancello: è una sinfonia di stimoli sensoriali che, uno dopo l'altro, ricostruiscono il puzzle della memoria di Charles, culminando in una delle più grandi e liberatorie agnizioni della storia del cinema.

Potremmo azzardare un parallelismo quasi blasfemo con il cinema di Alfred Hitchcock. Se in film come Io ti salverò l'amnesia è un mistero da risolvere con gli strumenti della psicoanalisi, un labirinto freudiano da cui fuggire, in Follie d'inverno è uno stato dell'anima, una condizione esistenziale da abbracciare e attraversare con la sola forza del sentimento. Non c'è un trauma specifico da "curare", ma un'intera vita da "ritrovare". La pellicola si pone in un territorio che decenni dopo verrà esplorato, con sensibilità e linguaggi completamente diversi, da opere come Eternal Sunshine of the Spotless Mind di Michel Gondry. Entrambi i film, pur nella loro distanza stilistica abissale, si pongono la stessa, straziante domanda: cosa resta di un amore quando i ricordi che lo hanno costituito vengono cancellati? E la risposta, in entrambi i casi, è che l'amore non risiede solo nella corteccia cerebrale, ma lascia un'impronta indelebile nell'anima, un'eco emotiva che sopravvive alla tabula rasa della mente.

La performance di Greer Garson merita un'analisi a parte. Lungi dall'essere la vittima passiva che attende, la sua Paula/Margaret è una figura di una forza e di un'intelligenza formidabili. È lei l'agente attivo della narrazione, colei che orchestra pazientemente la possibilità del ricongiungimento. La scena in cui "propone" a Charles di sposarla per ragioni politiche, nascondendo il suo cuore spezzato dietro un sorriso di impeccabile efficienza, è un capolavoro di recitazione per sottrazione, un momento in cui il melodramma tocca le vette della tragedia classica. Il suo volto diventa la mappa di un dolore sopportato con una dignità quasi ultraterrena, trasformandola in un'icona di resilienza femminile che trascende ampiamente gli stereotipi del suo tempo.

Follie d'inverno è molto più di un semplice film sentimentale. È un poema cinematografico sulla natura fantasmagorica dell'identità, un saggio sulla tenacia dell'amore e un monumento a un'epoca di Hollywood in cui si poteva ancora credere che un bacio, o il semplice girare di una chiave in una toppa, potesse davvero ricomporre un'anima in frantumi e redimere le ferite della storia. È la follia di credere in un amore così assoluto, una follia che solo la magia nera e la luce bianca del cinema sanno rendere non solo plausibile, ma assolutamente necessaria.

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