Ghost Dog - Il codice del samurai
1999
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Regista
Un samurai si muove tra le crepe del cemento di una Jersey City crepuscolare, un fantasma urbano il cui unico maestro è un mafioso di mezza tacca che gli ha salvato la vita anni prima, e il cui unico vangelo è un polveroso tomo del Settecento, l'Hagakure. Questa non è la premessa di un bizzarro manga, ma il cuore pulsante di Ghost Dog - Il codice del samurai, il koan cinematografico con cui Jim Jarmusch, alla fine del millennio, ha distillato la sua intera poetica in un'opera di purezza zen e coolness insuperabile. Il film è un haiku sulla solitudine, un trattato di filosofia esistenziale mascherato da gangster movie, un'elegia per codici d'onore perduti e, soprattutto, un magnifico e anomalo oggetto filmico che danza sul filo del rasoio tra il sublime e l'assurdo.
Per cogliere l'essenza di Ghost Dog, è imperativo guardare al suo più illustre antenato spirituale: Le Samouraï (1967) di Jean-Pierre Melville. Jarmusch non si limita a omaggiare il capolavoro francese; lo campiona, lo remixa, lo traspone in un contesto radicalmente diverso. L'algido sicario Jef Costello di Alain Delon, con il suo trench e i suoi guanti bianchi, è il modello archetipico. Ma dove Melville costruiva un mondo di geometrie esistenzialiste parigine, fredde e implacabili, Jarmusch immerge il suo protagonista, un superbo Forest Whitaker, in un paesaggio di decadenza americana. Il rigore ritualistico del samurai non si scontra con l'efficienza della polizia francese, ma con l'inefficienza farsesca di una cosca mafiosa in bancarotta, un gruppo di gangster anziani, goffi e patetici che guardano cartoni animati e faticano a pagare l'affitto. Questo scarto è la prima, geniale intuizione del film: la tragedia del samurai solitario diventa la commedia surreale di un uomo che applica il più nobile e rigido dei codici a un mondo che non solo non lo capisce, ma non ne merita nemmeno la purezza.
Forest Whitaker incarna Ghost Dog con una gravitas quasi monastica. Il suo volto è una maschera di serenità impenetrabile, ma i suoi occhi tradiscono una profonda, malinconica saggezza. È un artista della morte, ma anche un filosofo della vita. Comunica con i suoi piccioni viaggiatori con più intimità che con gli esseri umani, e la sua dimora è una baracca su un tetto, un dojo improvvisato che si affaccia sullo skyline morente della città. La sua aderenza all'Hagakure non è un vezzo, ma una necessità spirituale. I brani del testo, che scandiscono il film come capitoli di un sutra, non sono semplici citazioni, ma la struttura portante della sua esistenza. "La via del samurai si trova nella morte": Ghost Dog ha accettato la propria mortalità prima ancora di sguainare la spada (o, in questo caso, di estrarre la pistola silenziata). Vive già come un fantasma, un'entità definita unicamente dalla sua funzione e dal suo debito d'onore verso Louie (John Tormey), il suo "signore", un mafioso che incarna l'antitesi di ogni ideale feudale.
Il sincretismo culturale è la cifra stilistica di Jarmusch, ma qui raggiunge un'apoteosi. Ghost Dog è il punto d'incontro tra la filosofia guerriera del Giappone feudale e la cultura hip-hop afroamericana della fine degli anni '90. A cementare questa fusione apparentemente impossibile è la colonna sonora, un capolavoro di RZA, mente e produttore del Wu-Tang Clan. Non è un caso. Il Wu-Tang Clan stesso aveva costruito la propria mitologia su un'estetica che mescolava la vita di strada di Staten Island con la fascinazione per i film di kung fu e la filosofia delle arti marziali. La musica di RZA non è un semplice accompagnamento; è il respiro del film, il battito cardiaco di Ghost Dog. I beat cupi e minimalisti, i campionamenti spettrali, creano un paesaggio sonoro che è contemporaneamente urbano e ancestrale. È il suono della meditazione prima dell'azione, il ritmo interiore di un guerriero che attraversa il "bardo" tra la vita e la morte. In un certo senso, la colonna sonora di RZA è per Ghost Dog ciò che il free jazz di Ornette Coleman è per la New York di Chappaqua di Conrad Rooks: non commento, ma espressione diretta dell'anima del paesaggio e del suo abitante.
Attorno al silenzioso epicentro di Ghost Dog, Jarmusch costruisce una galleria di personaggi che ne illuminano, per contrasto, la natura eccezionale. I mafiosi, guidati dal boss Ray Vargo (un magnifico Henry Silva), sono una caricatura del genere. La loro violenza è scomposta, la loro etica è una barzelletta, il loro codice è stato svenduto da tempo. La scena in cui Sonny Valerio (Cliff Gorman) canticchia un verso di Flavor Flav dei Public Enemy è un momento di comicità sublime che rivela l'abisso culturale tra i due mondi. Sono relitti di un'altra epoca, fossili di un cinema che fu, destinati a essere spazzati via da una forza che non possono nemmeno iniziare a comprendere.
Ma il vero cuore del film risiede nelle uniche due connessioni umane di Ghost Dog, entrambe basate su una comunicazione che trascende il linguaggio verbale. La prima è con Raymond (Isaach De Bankolé), un gelataio haitiano che parla solo francese. I loro dialoghi sono un capolavoro di incomprensione letterale e comprensione totale. Discutono di gelati e di omicidi, di filosofia e di orsi, e pur non capendo una sola parola di ciò che dice l'altro, si capiscono perfettamente. La loro amicizia è la più pura rappresentazione dell'estetica jarmuschiana: la connessione autentica non avviene attraverso le parole, ma attraverso un'affinità di spirito, una sintonia di anime che vibrano sulla stessa, solitaria frequenza. È un legame che ricorda quello tra i personaggi di Stranger Than Paradise, uniti più da un comune senso di spaesamento che da un dialogo articolato.
La seconda connessione è con la giovane Pearline (Camille Winbush), una bambina avida di libri. A lei Ghost Dog passa il testimone della conoscenza, prestandole prima Il vento tra i salici e poi, significativamente, Rashomon. Questo gesto è fondamentale. Rashomon, sia nel racconto di Akutagawa che nel film di Kurosawa, è un'opera sulla relatività della verità e la soggettività della percezione. Passando quel libro a Pearline, Ghost Dog non le sta solo dando qualcosa da leggere; le sta consegnando uno strumento per decifrare il mondo, un mondo dove le storie e i codici sono tutto ciò che abbiamo per dare un senso al caos. È la trasmissione di un'eredità, non di sangue ma di idee, l'assicurazione che il "codice" – in qualunque forma esso possa manifestarsi – sopravviverà.
In questo senso, Ghost Dog è un film profondamente borgesiano. Come i personaggi di Borges che vivono le loro vite come se fossero l'incarnazione di un testo, Ghost Dog modella ogni sua azione, ogni suo pensiero, sulle parole dell'Hagakure. Il libro non è una guida, è la sua realtà. La sua esistenza è un atto di interpretazione letterale, una performance di un testo antico in un'arena moderna. Questa natura meta-testuale fa del film un'opera squisitamente postmoderna, un pastiche di generi (samurai movie, gangster film, western urbano) che è consapevole della propria natura citazionista ma che, attraverso la sincerità del suo protagonista, trascende il mero gioco intellettuale per raggiungere una purezza emotiva quasi spirituale. La fotografia di Robby Müller, storico collaboratore di Wenders e Jarmusch, cattura la bellezza desolata di questo mondo con la sua consueta maestria, trasformando i tetti, le strade deserte e gli interni squallidi in un paesaggio dell'anima, un giardino zen fatto di mattoni e asfalto screpolato.
Ghost Dog è arrivato alla fine di un decennio, gli anni '90, ossessionato dalla decostruzione e dalla parodia. Ma Jarmusch non parodizza nulla; al contrario, cerca l'assoluto nel frammento, la sacralità nell'ibrido. Crea un eroe tragico la cui tragedia non è la morte, che egli accoglie come compimento del suo percorso, ma la sua anacronistica integrità in un mondo che ha perso ogni centro. È il sussurro di un codice antico in un'epoca di urla insensate, la storia di un uomo che sceglie di vivere e morire secondo un libro, trovando in esso l'unica, poetica, e infine gloriosa, via d'uscita. Un capolavoro silenzioso e letale, come un colpo di katana nel cuore della notte.
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