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Il gigante

1956

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George Stevens, dopo aver diretto Shane nel ’53, non si limita a firmare una delle più monumentali opere degli anni d’oro di Hollywood, ma scolpisce una vera e propria epos del sogno americano, un affresco denso e stratificato che cattura lo spirito di un’epoca di transizione. Se Shane aveva sigillato la frontiera con la polvere e la malinconia del tramonto dei miti western, Il Gigante proietta lo sguardo verso il futuro inebriante e talvolta corrotto dell'industrializzazione e della ricchezza petrolifera, radicandosi profondamente nell'immaginario del Texas. È un passaggio narrativo che rivela l'acume di Stevens nel decodificare l'evoluzione dell'identità nazionale.

Tratto dall’omonimo romanzo di Edna Ferber, un’autrice la cui penna ha spesso saputo cogliere l’essenza delle saghe familiari e delle trasformazioni sociali americane – si pensi a Show Boat o Cimarron, anch’essi poi adattati con successo al grande schermo – Il Gigante fu fin da subito un successo letterario che urlava per la sua trasposizione cinematografica. Un film che ebbe una durata titanica di 210 minuti e che richiese tre anni di lavorazione, un’odissea produttiva che vide la troupe e il cast affrontare le asperità del Texas occidentale, precisamente a Marfa, dove il vento e l'isolamento fecero da sfondo a un'esperienza quasi mistica per tutti i coinvolti. La sua durata, in particolare, sollevò i timori della Warner Bros., che chiese a Stevens di realizzare una versione più breve per timore di un rigetto da parte del pubblico, richiesta naturalmente rispedita al mittente. Questa resistenza del regista alle pressioni commerciali è emblematica della sua statura di auteur nel sistema degli studios, un uomo che aveva la visione e l'autorità per difenderla, persuaso che ogni inquadratura e ogni battuta fossero indispensabili per la complessità del suo affresco.

Il Gigante è essenzialmente un’epopea incentrata su una saga famigliare in Texas, un microcosmo che riflette le tensioni e le metamorfosi di un’intera nazione. Jordan "Bick" Benedict Jr. (impersonato da un Rock Hudson in stato di grazia) è il capofamiglia, l'incarnazione della vecchia aristocrazia terriera, legata alla terra e alle sue tradizioni millenarie. Ha sposato la ricca e sofisticata Leslie Lynnton (una sublime Elizabeth Taylor), una donna del Maryland che, con la sua sensibilità progressista, funge da catalizzatore di cambiamento e da specchio critico delle consuetudini texane, dalla segregazione razziale alle aspettative di genere. La pacifica, seppur complessa, convivenza dei due verrà insidiata dall’ambizioso e rancoroso Jett Rink (James Dean), un bracciante taciturno e ribelle che, grazie a una piccola eredità terriera e a un colpo di fortuna con il petrolio, farà una fortuna spropositata e si prenderà la sua cinica rivincita sulla famiglia Benedict, incarnando il lato oscuro e predatorio del sogno americano. La sua parabola ascendente, segnata da un desiderio insaziabile di riconoscimento e da un’amarezza mai sopita, diventa il controcanto tragico alla nobiltà (talvolta ingenua) dei Benedict.

Magistrali i tre attori principali, veri e propri titani dello schermo che qui offrono prestazioni indimenticabili. Rock Hudson, in particolare, che in questo film offrì una delle sue migliori interpretazioni, sfugge ai cliché del "leading man" per dar vita a un personaggio stratificato, testardo ma vulnerabile, che evolve credibilmente nel corso di decenni, affrontando il declino della sua influenza e l'emergere di nuove realtà. Elizabeth Taylor, ben oltre la sua iconica bellezza, infonde a Leslie una forza intellettuale e morale notevole, trasformandola da semplice moglie a vera protagonista del cambiamento sociale all'interno della famiglia e della comunità. Ma è James Dean a lasciare un’impronta indelebile, nella sua ultima performance cinematografica. La sua morte prematura, avvenuta poco dopo la fine delle riprese (rendendo necessarie alcune ri-registrazioni vocali per completare il suo personaggio), conferisce a Jett Rink un'aura quasi profetica di genio autodistruttivo. Dean canalizza la sua tormentata energia del "metodo" in un ritratto di rara intensità, una figura di ribellione e solitudine che ha saputo imporsi nell’immaginario collettivo come pochi altri.

George Stevens percorre con successo la linea sottile che divide il feuilleton di maniera dal dramma epico, un equilibrio precario che riesce a mantenere con maestria per tutti i 210 minuti della durata del film. Il suo taglio drammaturgico, paziente ma serrato, lo rende una delle poche epopee della sua epoca che continua a reggere l’usura del tempo, la sua visione infatti riesce ad essere coinvolgente ancora oggi. La narrazione, benché vasta e ricca di sottotrame, non perde mai di vista i suoi perni tematici: il progresso a discapito della tradizione, la difficile convivenza tra diverse culture e classi sociali, l'emancipazione femminile e la lotta contro i pregiudizi razziali (particolarmente coraggiosa per il cinema di quegli anni). In questo, Il Gigante si erge a fratello spirituale di altre grandi saghe americane come Via col vento, ma con un occhio più disilluso e critico sulle storture del sogno a stelle e strisce. La "fotografia maliarda" di William C. Mellor contribuisce in modo decisivo a questa grandiosità, catturando la vastità mozzafiato del paesaggio texano, i cieli infiniti e le pianure sconfinate che diventano metafora della grandezza e della solitudine dei personaggi, riflettendo le loro ambizioni smodate e le loro intime fragilità. Le inquadrature ampie, quasi pittoriche, conferiscono al film una portata che trascende il melodramma familiare per toccare corde universali sulla condizione umana e sull'inarrestabile fluire della storia.

Il Gigante richiede tempo e dedizione, certo, ma ripaga con una narrazione serrata e una fotografia che è pura poesia visiva, offrendo un’esperienza cinematografica che è al tempo stesso un’intima esplorazione psicologica e un monumentale saggio sulla complessa anima americana del XX secolo. È un film che non si limita a raccontare una storia, ma invita lo spettatore a riflettere sul costo del progresso, sulla natura effimera della ricchezza e sulla persistenza di valori che, pur messi alla prova, definiscono l’essenza stessa dell’umanità. Un capolavoro che, ancora oggi, risuona con sorprendente modernità.

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