Gimme Shelter
1970
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L'inquadratura più importante di Gimme Shelter non è quella dell'accoltellamento. Non è nemmeno l'esplosione di violenza primordiale che squarcia il velo del concerto. L'inquadratura definitiva, il cuore nero pulsante del film, arriva in una sala di montaggio asettica. Mick Jagger, avvolto in una pelliccia che sembra ormai un costume di scena inadeguato, osserva sé stesso sul piccolo schermo della moviola. Sta guardando, per la prima volta, il momento esatto in cui il suo carnevale rock è diventato un rito sacrificale. Il suo volto, di solito una maschera di gomma di arroganza androgina, è immobile, quasi catatonico. È lo sguardo di Orfeo che si volta e vede Euridice svanire per sempre negli inferi. In quel preciso istante, i fratelli Maysles e Charlotte Zwerin non stanno semplicemente documentando la fine di un concerto; stanno filmando la coscienza di un'epoca che si osserva morire, costretta a rivedere il nastro del proprio fallimento.
Questo è il genio meta-testuale che eleva Gimme Shelter da semplice rockumentary a spartiacque tanatologico. A differenza del suo contemporaneo e antitetico Woodstock (1970), che celebrava il trionfo utopico della controcultura in un tripudio di fango, pioggia e fratellanza, il film dei Maysles è l'autopsia di quel medesimo sogno. Se Woodstock è l'epica omerica del "flower power", Gimme Shelter è la sua tragedia greca, completa di un coro di Hells Angels che funge da Furia vendicatrice e di un eroe tragico, Jagger, la cui hybris sta nel credere di poter evocare Dioniso senza pagarne il prezzo. Il film si sviluppa come un chiasmo perfetto: inizia con il trionfo controllato, quasi corporativo, del Madison Square Garden, dove i Rolling Stones sono divinità del rock inscatolate in un'arena, padrone della loro liturgia elettrica. E termina con la discesa nell'Ade di Altamont, uno spazio aperto, informe, un non-luogo dove ogni struttura, musicale e sociale, collassa.
Il parallelismo più calzante non è con il cinema, ma con la letteratura. Il viaggio da New York alla California del Nord è un'eco oscura e distorta del Cuore di Tenebra di Conrad. Gli Stones, come Marlow, risalgono il fiume della loro stessa fama, spingendosi sempre più a ovest, sempre più nel selvaggio, alla ricerca di un evento "libero" che sia la catarsi finale del loro tour. Altamont diventa la loro stazione interna, un luogo dove la civiltà – rappresentata dalle fragili impalcature del palco e dalle flebili suppliche di Jagger al microfono ("Brothers and sisters... why are we fighting?") – si dissolve di fronte a una violenza atavica. Gli Hells Angels, ingaggiati per cinquecento dollari di birra in un atto di ingenuità che rasenta l'idiozia criminale, non sono le guardie del corpo del rock'n'roll; sono l'incarnazione del suo Id represso, la brutalità che si nascondeva sotto la superficie dell'amore libero. Sono i selvaggi di Kurtz, fedeli non a un ideale, ma a un codice primario di violenza tribale. E "l'orrore... l'orrore" non è una frase sussurrata nella giungla, ma è stampato sul volto di ogni spettatore che realizza che la festa è finita nel sangue.
I Maysles, pionieri del Direct Cinema, applicano la loro filosofia di "verità non controllata" con una coerenza terrificante. La loro cinepresa non è un occhio compassionevole, ma un testimone spietato, quasi entomologico. Inquadra gli avvocati che negoziano i diritti del tour con la stessa freddezza con cui cattura una rissa tra la folla. Questa apparente neutralità è, in realtà, la più potente delle prese di posizione estetiche. Rifiutando la narrazione onnisciente, il film costringe lo spettatore a fare i conti con il caos, a cercare un senso in un mosaico di frammenti: il cane che vaga sul palco, le coppie nude che si contorcono nel fango, il volto terrorizzato di una ragazza, la lama che balugina per un istante. È un'estetica che ricorda quasi i quadri di Hieronymus Bosch, una "Salita al Calvario" dove Cristo è un rocker effeminato che canta "Sympathy for the Devil" mentre intorno a lui si scatena una diablerie di corpi sudati, droghe cattive e paranoia collettiva. La scelta di includere quella canzone nel montaggio del massacro è una delle più agghiaccianti decisioni editoriali della storia del cinema, un contrappunto ironico che accusa la band di aver giocato col fuoco, di aver flirtato con un'oscurità che alla fine li ha divorati.
Il film, inoltre, funge da documento prezioso sul collasso di un'intera estetica performativa. Per tutti gli anni Sessanta, il rock era stato un rituale di liberazione collettiva. Ma ad Altamont, il rito si inverte. Il performer non è più lo sciamano che guida la tribù, ma la vittima sacrificale che a malapena riesce a scappare dall'altare. La distanza tra palco e pubblico si annulla non in un abbraccio comunitario, ma in un'invasione di campo violenta. Jagger, che aveva costruito la sua intera carriera sull'ambiguità e sulla provocazione luciferina, si ritrova a recitare la parte del preside di liceo che cerca di sedare una rissa. La sua performance, così potente nelle arene, diventa impotente e quasi patetica di fronte alla realtà cruda. È l'epifania del Reale lacaniano che irrompe nella fantasia simbolica del rock, uno squarcio che rivela l'impotenza dell'arte di fronte alla vita, o meglio, alla morte.
C'è un momento, prima del disastro, in cui il film sembra quasi concedersi una speranza. È la sequenza girata ai Muscle Shoals Sound Studio in Alabama, dove la band registra "Wild Horses". In quella stanza chiusa, la musica è pura, distillata, una malinconia acustica che sembra provenire da un altro universo rispetto al frastuono di Altamont. È un intermezzo lirico, un'oasi di creatività controllata che rende la successiva caduta ancora più vertiginosa. È il sogno prima dell'incubo, l'ultimo respiro di innocenza prima che la storia – quella con la S maiuscola, fatta di tensioni razziali, di guerra in Vietnam, degli omicidi della Manson Family che aleggiavano nell'aria californiana di quel dicembre 1969 – presentasse il conto. Meredith Hunter, il ragazzo afroamericano ucciso a pochi passi dal palco, non è solo una vittima; è il simbolo tragico di tutte le contraddizioni che la controcultura hippie aveva cercato goffamente di ignorare.
Alla fine, torniamo a quella sala di montaggio. Jagger guarda e riguarda il fotogramma. I Maysles lo costringono a una seconda visione, rallentata, come a voler certificare l'evento, a renderlo innegabile. In quello sguardo fisso c'è tutto: la sorpresa, l'orrore, forse una punta di colpa, ma soprattutto la fredda consapevolezza che un'era si è chiusa. Non con un'esplosione, come cantava Eliot, ma con lo sferragliare di una moviola. Gimme Shelter non è solo un film su un concerto andato male. È il certificato di morte del sogno degli anni Sessanta, un saggio cinematografico sulla natura precaria di ogni utopia, sulla facilità con cui un raduno per la pace e l'amore può trasformarsi in un baccanale di morte. Un epitaffio inciso non sulla pietra, ma su una pellicola 16mm, che continua a girare all'infinito, mostrandoci il momento esatto in cui la musica si è fermata.
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