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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Giochi proibiti

1952

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Un ponte, una strada di campagna francese nel giugno del 1940. Un idillio pastorale frantumato dal sibilo di uno Stuka. La sequenza iniziale di Giochi proibiti di René Clément è una delle più brutali e oneste dichiarazioni d’intenti nella storia del cinema sulla guerra: il conflitto non è un palcoscenico per l'eroismo, né un dramma corale di nazioni. È un'interruzione. Un glitch cosmico che strappa il velo della normalità e lascia i suoi sopravvissuti a vagare in un paesaggio improvvisamente alieno, privo di regole. In questo caos primordiale, la piccola Paulette (una Brigitte Fossey di cinque anni, la cui performance ha del miracoloso, un fulmine in bottiglia che nessun metodo Stanislavskij potrebbe mai replicare) si aggrappa all'unica cosa che le resta del suo mondo: il cadavere del suo cagnolino, Jock.

È qui che il film devia dal sentiero battuto del dramma bellico per inoltrarsi in un territorio molto più strano, un reame di antropologia infantile e teologia improvvisata. Paulette, orfana e muta dal trauma, viene accolta dalla famiglia contadina dei Delle. Qui incontra Michel (Georges Poujouly), un ragazzo di poco più grande. Il loro legame non nasce da una comune allegria, ma da una comune e disperata necessità di dare un senso all'insensato. La morte di Jock diventa il catalizzatore per la creazione di un universo morale alternativo, un microcosmo sacro costruito per sfuggire all’oscenità profana della guerra degli adulti. Iniziano così i "giochi proibiti": la costruzione di un cimitero segreto per animali in un mulino abbandonato.

Ciò che rende il film di Clément un capolavoro vertiginoso è il modo in cui osserva questo processo di mitopoiesi infantile non con condiscendenza o sentimentalismo, ma con la serietà di un etnologo che studia un culto cargo. Paulette e Michel non stanno semplicemente "giocando". Stanno compiendo un atto di resistenza epistemologica. Vedono gli adulti piantare croci sulle tombe degli uomini e, con una logica infantile inattaccabile, deducono che la croce è l'hardware necessario per l'elaborazione del lutto, un talismano che conferisce dignità e significato alla morte. Se funziona per gli umani, deve funzionare per Jock. E per la talpa. E per lo scarafaggio. La loro diventa un'escatologia tascabile, una religione sincretica e macabra la cui unica dottrina è la cura. La loro missione, dunque, diventa la raccolta di croci. Qualsiasi croce. Quelle rubate dalla biga del cimitero, dal carro funebre del vicino, persino quella preziosa sopra la tomba del fratello di Michel, caduto in guerra.

Questo saccheggio sistematico di simboli cristiani è la chiave di volta meta-testuale del film. Clément non mette in scena un'allegoria anticlericale, sarebbe troppo semplice. Piuttosto, mostra come i simboli, svuotati della loro liturgia e del loro contesto teologico dagli adulti stessi (la cui fede è una facciata di convenzioni sociali e rivalità paesane), vengano ri-sacralizzati dai bambini con una sincerità devastante. La faida tra i Dolle e i loro vicini, i Gouard, è una parodia grottesca della guerra che infuria fuori campo: un conflitto basato su ripicche insensate e un orgoglio vacuo. In questo mondo adulto, la croce è un pezzo di proprietà, un marcatore di status sociale persino nella morte. Per Paulette e Michel, è uno strumento magico, l'unico ponte verso la comprensione di un mistero che gli adulti hanno smesso di interrogare.

Si potrebbe tracciare una linea diretta da qui a El espíritu de la colmena di Víctor Erice, dove un'altra bambina, Ana, usa il mostro di Frankenstein per processare il trauma silenzioso della Spagna franchista. O, spingendosi oltre, si potrebbe vedere in Giochi proibiti un precursore involontario di certo realismo magico, un Cent'anni di solitudine in miniatura dove la logica del mito si sovrappone a quella della realtà per renderla sopportabile. Ma a differenza di Erice o di Márquez, Clément non concede quasi nulla al fantastico. L'orrore e la meraviglia risiedono interamente nella lucidità quasi documentaristica con cui la macchina da presa osserva i rituali dei bambini. Clément, che aveva iniziato la sua carriera come documentarista, applica lo stesso occhio impassibile sia alla fuga dei profughi sia alla sepoltura di una rana. È questo scarto stilistico, questa fusione tra neorealismo e fiaba nera, a generare un'inquietudine profonda.

La genesi stessa del film è una storia di fortunate contingenze. Nato come un segmento scartato di un film a episodi sulla guerra, fu poi espanso da Clément in un lungometraggio, mantenendo però la sua struttura concisa e la sua intensità da racconto breve. Questa origine spiega forse la sua perfezione formale, la sua assenza di grasso narrativo. Ogni scena è funzionale alla costruzione del mondo privato dei due protagonisti. E poi, c'è la musica. La celeberrima melodia "Romance Anónimo", eseguita alla chitarra da Narciso Yepes, è diventata un'entità a sé stante, un brano così iconico da aver quasi messo in ombra il film da cui proviene. Eppure, nel contesto della pellicola, la sua semplicità struggente non è un mero commento sonoro, ma l'anima stessa della storia: una melodia che evoca un'innocenza perduta, una tristezza così pura da diventare quasi intollerabile, la ninna nanna di un mondo che sta morendo.

Il film è una spietata dissezione della bancarotta morale del mondo adulto. Mentre Paulette e Michel costruiscono il loro santuario con una serietà tombale, gli adulti intorno a loro sono impegnati in un balletto dell'assurdo. Si ubriacano, litigano per un pezzo di terra, si accusano a vicenda di furti ridicoli, il tutto mentre la Storia con la S maiuscola sta radendo al suolo la loro civiltà. La loro incapacità di consolare Paulette, di spiegare la morte, di offrire un rifugio che non sia puramente materiale, è la vera tragedia del film. Delegano il lavoro emotivo e spirituale ai loro stessi figli, che sono costretti a improvvisare una cosmologia dal nulla, usando i detriti del mondo dei grandi.

Il finale è una pugnalata allo stomaco che lascia senza fiato, uno dei più crudeli e necessari della storia del cinema. Separati, con il loro cimitero segreto scoperto e distrutto, Paulette finisce in un centro della Croce Rossa, un mare di bambini anonimi e perduti. Non piange. Vaga in uno stato di shock finché non sente una donna chiamare "Michel!". Si volta, il viso illuminato da una speranza disperata, e chiama a sua volta: "Michel!". Ma non è il suo Michel. E mentre la folla la inghiotte, la sua voce si trasforma in un pianto disperato, mentre chiama sua madre, un nome che non pronunciava dall'inizio del film. È il crollo finale. Il gioco è finito. La magia protettiva che aveva costruito con il suo amico è svanita, e il mondo reale, nella sua indifferenza totale, la reclama. Non c'è catarsi, non c'è consolazione. C'è solo il silenzio che segue la fine di un incantesimo, e il rumore assordante del mondo che ricomincia a girare senza di te.

Giochi proibiti è un'opera che trascende la sua etichetta di "film sulla guerra". È un trattato di filosofia morale travestito da elegia. È la dimostrazione che l'innocenza non è l'assenza di conoscenza del male, ma il tentativo ostinato, eroico e destinato al fallimento di creare il bene in sua presenza. È un film che ci ricorda che i rituali più potenti non sono quelli sanciti dalla tradizione, ma quelli inventati nel buio, per disperazione, da due bambini che cercavano solo un posto sicuro dove seppellire il loro cane.

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