Giorni Perduti
1945
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Regista
Un’opera sulla perdizione di un uomo: così potrebbe conchiudersi questa ennesima prova del genio di un regista eclettico e mai scontato.
Billy Wilder, intellettuale raffinato e profondo, volle in questo modo innestare un po’ dello spirito inquieto, umbratile e obliquo, tipico dell’arte europea, in seno alla macchina buonista di Hollywood. E non fu un'operazione da poco, considerata l'egemonia di un Codice Hays che pretendeva di edulcorare le asprezze dell'esistenza. Wilder, ebreo viennese fuggito dal nazismo, portava con sé un bagaglio culturale denso di psicanalisi freudiana e un cinismo intellettuale che mal si sposava con le illusioni hollywoodiane, e Giorni Perduti ne è la frontiera, il punto di rottura, un dramma che travalica il mero intento sociale per farsi esplorazione abissale dell'autodistruzione.
La storia è quella di uno scrittore in crisi di risultati che sprofonda nell’alcolismo. Don Birnam non è semplicemente un autore afflitto dal blocco dello scrittore; è un archetipo del genio bloccato, la cui penna si è prosciugata, non per mancanza di talento, ma per la corrosione dell'anima. L'alcolismo, nel suo caso, non è un vizio marginale, bensì il fulcro gravitazionale attorno a cui ogni aspetto della sua esistenza collassa. La spirale discendente non è un mero susseguirsi di eventi, ma una caduta ontologica, un disfacimento metodico della persona, un viaggio senza ritorno verso la non-esistenza, che si consuma in un weekend che si fa metafora di un'intera vita perduta.
Gradualmente la sua vita andrà in pezzi con l’allontanamento delle persone che lo amano, l’alienazione, l’esilio in una città ostile e sconosciuta. Il distacco dalle persone amate – la premurosa e fin troppo paziente Helen, il fratello che tenta disperatamente di aiutarlo – non è una semplice rottura di legami, ma un auto-isolamento che trasforma ogni rapporto in un ponte bruciato. L'alienazione si fa geografica: New York, la metropoli vibrante, si trasfigura sotto i suoi occhi annebbiati in un labirinto kafkiano, una prigione di strade anonime e vicoli ciechi, dove ogni ombra sembra nascondere una minaccia, e il rumore della città si fa coro assordante della sua solitudine. È una metropoli che non offre rifugio, ma espone impietosamente la sua vulnerabilità, trasformando il familiare in minaccioso, il noto in terrificante.
Sarà la sua compagna a lottare con tutte le sue forze per riportare l’uomo alla vita. Helen non è una figura passiva o un semplice catalizzatore di redenzione; è la vera eroina tragica, una Penelope moderna che tesse e disfa la tela della speranza, testimone impotente e al contempo baluardo indomito contro la marea crescente della disperazione. La sua lotta non è solo per l'uomo che ama, ma contro la forza primordiale e distruttiva dell'addizione stessa, una battaglia di volontà contro l'abbandono, di luce contro l'ombra. Il suo è un amore che resiste alla repulsione, alla menzogna, alla degradazione, un faro quasi stoico nella nebbia tossica della dipendenza.
Splendida interpretazione di Ray Milland, davvero un’icona della perdizione. L'interpretazione di Ray Milland è non solo splendida, ma sconvolgente per la sua brutalità e autenticità, tanto da valergli l'Oscar al Miglior Attore. Milland non recita l'alcolismo; lo incarna, lo vive sulla propria pelle, con una dedizione che lo portò a osservare pazienti in reparti psichiatrici e a sottoporsi a una dieta drastica per accentuare l'aspetto emaciato e sofferente del suo Don Birnam. La sua performance non è una mera rappresentazione, ma una discesa agli inferi della coscienza, un ritratto senza filtri della vergogna, della dipendenza fisica e psicologica, e del delirio. L'icona della perdizione che plasma non è statica, ma dinamica, un vortice di auto-distruzione che attrae e respinge lo spettatore con eguale forza, rendendo tangibile il tormento interiore, specialmente nella celebre sequenza del delirium tremens – un capolavoro di orrore psicologico che ha segnato un'epoca, con i suoi pipistrelli e il topo che emerge dal muro, resa ancora più terrificante dalla musica dissonante e sperimentale di Miklós Rózsa, che osò persino utilizzare il theremin per evocare il malessere psichico.
Un’opera sontuosa sulla deriva psicologica e affettiva di un essere umano, che ci ricorda ogni minuto quanto siamo fragili dinanzi alle avversità. Quest'opera sontuosa non si limita a dipingere la deriva psicologica e affettiva di un essere umano; ne disseziona le radici più profonde, esplorando la solitudine intrinseca dell'uomo, la fallacia della volontà e la perversione del desiderio. Basato sul controverso romanzo semi-autobiografico di Charles R. Jackson, in un'epoca in cui Hollywood tendeva a edulcorare o moralizzare eccessivamente, Wilder e lo sceneggiatore Charles Brackett (co-autore) ebbero il coraggio di affrontare un tema scomodo con una franchezza quasi documentaristica, anticipando di decenni il crudo realismo di opere successive come I giorni del vino e delle rose o persino certi aspetti di Trainspotting. Il film non offre facili risposte o consolazioni, ma ci pone di fronte alla vulnerabilità umana, non solo di fronte alle avversità esterne, ma soprattutto di fronte ai demoni interni, rendendo esplicita la natura insidiosa e auto-distruttiva dell'addizione.
Un film cattivo come un insulto, bello come una città sospesa nella nebbia. È un film cattivo non nel senso di malvagio, ma di disturbante, di corrosivo, che si insinua sotto la pelle come un'offesa personale, scuotendo le certezze e sfidando la nostra stessa capacità di empatia senza indulgenza alcuna. E tuttavia, è bello, non di una bellezza convenzionale, ma di quella intrinseca all'arte che sa rendere sublime l'abiezione, che trova una poetica amara nella nebbia della disperazione. Questa bellezza è quella del noir più puro, di un'estetica mutuata dal cinema espressionista tedesco – la patria natale di Wilder – fatta di chiaroscuri taglienti, prospettive distorte e atmosfere claustrofobiche che riflettono la mente tormentata del protagonista. Un'opera che non solo vinse quattro Oscar, incluso quello per il Miglior Film, ma che incise indelebilmente la sua impronta nella storia del cinema, non come un monito moraleggiante, ma come un grido soffocato, un'indagine spietata sulla condizione umana e sulle sue più oscure derive.
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