Godzilla
1954
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Regista
Un film non è una tesi di laurea, ma alcuni film agiscono come un sismografo dell'anima di una nazione, registrando scosse telluriche che la coscienza collettiva non ha ancora elaborato. Gojira di Ishirō Honda non è semplicemente un film; è una cicatrice trasfigurata in celluloide, un requiem nazionale mascherato da spettacolo di mostri, un esorcismo cinematografico per un trauma troppo grande per essere nominato direttamente. Per comprendere appieno la potenza abissale di questa pellicola, bisogna prima di tutto dimenticare decenni di sequel, di battaglie campali contro falene giganti e tartarughe rotanti, e tornare all'anno 1954, a meno di un decennio dalla fine della guerra e a pochi mesi dall'incidente del Daigo Fukuryū Maru, il peschereccio contaminato dal fallout del test nucleare di Castle Bravo a Bikini Atoll. L'orrore atomico non era un ricordo lontano; era una notizia fresca, una ferita ancora sanguinante.
Honda non dirige un monster movie nel senso americano del termine, come il coevo The Beast from 20,000 Fathoms. Quello era un thrilling d'avventura, un giro sulle montagne russe. Gojira è una catabasi, una discesa in un inferno di macerie e radiazioni. La sua struttura narrativa non è quella dell'avventura, ma della tragedia greca. Il mostro non è un avversario da sconfiggere con eroismo e proiettili; è una Nemesi, una forza della natura corrotta e risvegliata dall'hybris dell'uomo, una divinità ctonia strappata al sonno eterno negli abissi del Pacifico per restituire al mittente il veleno che l'ha generata. Il suo stesso nome, un portmanteau tra gorira (gorilla) e kujira (balena), evoca una creatura che è l'unione impossibile di una forza terrestre e di un mistero abissale. È il Leviatano di Hobbes emerso non per garantire l'ordine, ma per incarnare il caos scatenato dalla rottura del patto tra l'uomo e la natura.
La fotografia in bianco e nero di Masao Tamai non è una semplice scelta stilistica o un limite tecnico; è l'unica tavolozza possibile per dipingere questo incubo. Le ombre si allungano come presagi, il fumo delle rovine si confonde con la nebbia notturna, e il corpo scaglioso e rugoso di Gojira, illuminato a tratti dai fari della contraerea, assume la consistenza di una montagna che cammina. Quando il mostro emerge per la prima volta dalla baia di Tokyo, la sua apparizione non ha nulla di spettacolare nel senso moderno. È goffa, lenta, quasi teatrale. Eppure, proprio in questa fisicità impacciata, in questo "uomo in un costume" (la leggendaria tecnica tokusatsu di Eiji Tsuburaya), risiede una potenza espressiva che nessun effetto digitale potrà mai replicare. Non vediamo un animale; vediamo un simulacro, una personificazione. L'incedere di Gojira ha la cadenza inesorabile di una processione funebre, e il suo ruggito, creato sfregando un guanto di pelle ricoperto di resina sulle corde di un contrabbasso, è un lamento che sembra provenire dalle viscere della Terra.
Honda orchestra la distruzione di Tokyo con una sensibilità quasi neorealista. Il focus si sposta continuamente dalla macro-scala del disastro alla micro-scala della sofferenza umana. Una madre stringe a sé i figli in un vicolo mentre il fuoco atomico del mostro si avvicina, sussurrando loro: "Ci riuniremo presto al vostro papà". Negli ospedali, i contatori Geiger crepitano impazziti sui corpi di bambini irradiati. Un coro di ragazze intona una preghiera per la pace mentre sullo sfondo la città brucia. Queste non sono le scene di un film di fantascienza, ma echi diretti e strazianti di Hiroshima e Nagasaki. Gojira è la metafora più letterale che il cinema abbia mai concepito: è una nuvola atomica ambulante, una colonna di fumo e morte che si lascia alle spalle una terra desolata e avvelenata.
Ma il vero cuore filosofico del film non risiede nel mostro, bensì nella figura tormentata del dottor Daisuke Serizawa, interpretato da un magnifico Akihiko Hirata. Serizawa non è il classico scienziato eroe. È un antieroe tragico, un moderno Victor Frankenstein che, a differenza del suo predecessore letterario, è pienamente consapevole dell'orrore della sua creazione. Il suo "Oxygen Destroyer", un'arma capace di disintegrare la materia a livello molecolare, è persino più terrificante di Gojira stesso. La sua benda sull'occhio non è un vezzo estetico; è il segno di un uomo che ha visto troppo, un reduce di una guerra che gli ha lasciato cicatrici nell'anima prima ancora che sul corpo. Il suo laboratorio, un acquario oscuro e silenzioso, è il rifugio di un'anima che ha voltato le spalle al mondo per non contaminarlo con la sua conoscenza.
Il triangolo amoroso tra lui, la sua promessa sposa Emiko e il marinaio Ogata è più di un semplice sottotesto romantico. È il motore del dilemma morale. L'amore per Emiko lo costringe a rivelare il suo segreto, e la visione della sofferenza del suo popolo lo spinge a usare la sua arma, ma a una condizione: deve morire con essa, portando nella tomba la formula e impedendo all'umanità di replicare il suo peccato. La sua scelta di sacrificarsi non è un atto di eroismo, ma di suprema responsabilità. È la risposta tragica alla domanda posta da J. Robert Oppenheimer dopo il test di Trinity: "Sono diventato Morte, il distruttore di mondi". Serizawa, vedendo il mondo distrutto, sceglie di distruggere se stesso per salvare ciò che resta. La sua morte solitaria sul fondo dell'oceano, mentre Gojira si dissolve in un turbine di bolle, è una delle conclusioni più cupe e potenti della storia del cinema.
La partitura di Akira Ifukube è l'anima sonora di questo lamento. Il tema principale di Gojira non è una fanfara da mostro; è una marcia funebre, solenne e terribile. Accanto a essa, temi di una bellezza struggente e malinconica accompagnano i momenti di riflessione e dolore umano. La musica non commenta l'azione; la eleva a un livello mitico, quasi liturgico.
Rivedere Gojira oggi significa riscoprire una pellicola la cui intelligenza e profondità sono state sepolte sotto il peso della sua stessa icona. Il Gojira successivo, protettore della Terra e beniamino dei bambini, è un'operazione di addomesticamento culturale, la trasformazione di un trauma in un franchise rassicurante. Ma l'originale del 1954 rimane un oggetto alieno, spigoloso, radioattivo. Non offre facili soluzioni. Il dialogo finale è agghiacciante nella sua preveggenza. Mentre il sole sorge su un mare placido, il dottor Yamane, il paleontologo che per primo aveva compreso e quasi ammirato la creatura, mormora: "Non credo che quello fosse l'ultimo Godzilla. Se l'umanità continuerà con i suoi esperimenti nucleari, un altro Godzilla potrebbe apparire da qualche parte nel mondo". Non è il classico finale aperto che preannuncia un sequel. È una condanna, un monito che risuona oggi con una forza forse ancora maggiore. È la consapevolezza che il mostro non è mai stato il vero nemico. Il mostro siamo noi.
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