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La Grande Illusione

1937

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Un’opera che fa del messaggio antibellico la colonna portante della sua poetica. Jean Renoir gira con una sensibilità che travalica ogni tentativo di incasellare il suo film, elaborando un’opera che ancora oggi impressiona per la sua modernità, per la sua forza semiotica. Nel cuore del movimento del realismo poetico francese, Renoir si distingue per un umanesimo radicale e una capacità quasi profetica di leggere il tempo a venire. Girato nel 1937, a pochi anni dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, in un’Europa già percorsa dai venti sinistri del nazionalismo e dell'autoritarismo, il film è un grido assordante contro la follia della guerra e un inno commovente alla fratellanza tra gli uomini. Renoir, con uno sguardo lucido e disincantato, analizza le dinamiche sociali e psicologiche del conflitto, mettendo in luce l'assurdità delle divisioni nazionali e delle barriere ideologiche che si rivelano, in ultima analisi, futili e precarie di fronte alla comune condizione umana.

La grande illusione è un film che ha segnato indelebilmente la storia del cinema, non solo per la sua importanza tematica, ma anche per la sua ineccepibile bellezza formale. La fotografia di Christian Matras, con i suoi chiaroscuri magistrali e le sue atmosfere rarefatte, non si limita a illuminare la scena, ma contribuisce attivamente a creare un'atmosfera palpabile di malinconia e di disillusione, quasi una premonizione del crepuscolo di un'intera civiltà. Ogni inquadratura è intrisa di un realismo austero che si sposa con un sottile lirismo, conferendo al film una dimensione quasi pittorica. Le interpretazioni degli attori, tra cui spiccano la sottile nobiltà di Jean Gabin, l'eleganza malinconica di Pierre Fresnay e l'imponenza tragica di Erich von Stroheim, sono intense e memorabili, vere e proprie archetipi di un'umanità complessa e stratificata.

Durante la Prima Guerra Mondiale, due ufficiali francesi, il capitano de Boeldieu (Pierre Fresnay) e il tenente Maréchal (Jean Gabin), vengono abbattuti e fatti prigionieri dai tedeschi. L'incontro tra il raffinato aristocratico Boeldieu e il pragmatico e più proletario Maréchal è già di per sé un microcosmo delle tensioni sociali dell'epoca, una frattura che la prigionia e la condivisione della sofferenza tentano di ricomporre. Vengono trasferiti in diversi campi di prigionia, una metafora visiva della claustrofobia esistenziale e della perdita di libertà, dove incontrano altri prigionieri di diverse nazionalità e condizioni sociali. Tra questi, c'è il tenente Rosenthal (Marcel Dalio), un ebreo benestante, figura che Renoir inserisce con delicatezza ma con un significato profondo, ancor più alla luce degli eventi che avrebbero funestato l'Europa di lì a poco, con cui stringono una profonda amicizia. La narrazione procede con una fluidità quasi documentaristica, ma ogni interazione, ogni sguardo, rivela strati di significato. Nel campo di prigionia comandato dal capitano von Rauffenstein (Erich von Stroheim), un aristocratico tedesco ferito in guerra, si instaura un rapporto di rispetto e di stima reciproca tra i due ufficiali, nonostante siano su fronti opposti. Questo legame tra Boeldieu e von Rauffenstein è il cuore pulsante del film, un canto del cigno per un'aristocrazia europea cosmopolita e idealista, le cui convenzioni di onore e cavalleria stanno per essere spazzate via dalla brutalità della guerra moderna. Il loro rispetto reciproco, al di là delle trincee, suggerisce una solidarietà di classe che trascende le frontiere nazionali, un punto di vista rivoluzionario per l'epoca. De Boeldieu e Maréchal organizzano un piano di fuga, ma de Boeldieu, in un atto di suprema nobiltà e sacrificio, si immola per permettere a Maréchal e Rosenthal di scappare. La sua morte non è solo un atto eroico, ma la dolorosa estinzione di un'epoca, la fine di un certo tipo di élite destinata a scomparire, lasciando il campo a figure più terrene e concrete come Maréchal. I due fuggiaschi, dopo un pericoloso viaggio attraverso la Germania, trovano rifugio presso una vedova tedesca (Dita Parlo), con cui Maréchal instaura una breve ma intensa relazione. Questo intermezzo idilliaco e tragicamente effimero, in cui la tenerezza umana fiorisce nonostante l'odio della guerra, è un potente contrappunto alla cruda realtà dei campi, un barlume di speranza e di normalità. Alla fine, riescono a raggiungere la frontiera svizzera e a mettersi in salvo, un viaggio verso la libertà che è anche un viaggio verso una nuova consapevolezza.

Memorabile la scena in cui i prigionieri vengono costretti ad umiliarsi travestendosi da donne per il ludibrio degli ufficiali tedeschi. Questa sequenza, apparentemente un momento di farsa, è in realtà un capolavoro di sottigliezza psicologica e politica. Durante l'esibizione però iniziano ad intonare la Marsigliese. La scena è caratterizzata da una fortissima ironia, ma anche da una profonda dignità. Gli ufficiali tedeschi, che credono di umiliare i prigionieri, finiscono per essere sconfitti dalla loro stessa arma: il canto patriottico, ma non per cieco nazionalismo, bensì per ritrovata identità e resistenza. I prigionieri, cantando la Marsigliese a squarciagola, trasformano l'atto di umiliazione in un atto di resistenza e di sfida collettiva, un'affermazione della loro insopprimibile umanità. Il canto, inizialmente stonato e incerto, diventa sempre più forte e corale, simbolo dell'unità e del patriottismo ritrovati, un'onda sonora che si eleva al di sopra delle mura del campo. Renoir, con uno sguardo umanista e antimilitarista che trascende ogni partigianeria, ci mostra come la guerra sia una "grande illusione", un inganno che distrugce vite, annulla le classi sociali, e crea soltanto sofferenza. Un’opera di sconvolgente bellezza iconica e di grande impatto emotivo che ha saputo influenzare numerose opere cinematografiche come ad esempio Il ponte sul fiume Kwai (1957) di David Lean, dove vengono esplorati temi simili come il rapporto tra ufficiali di diverse nazionalità, il senso dell'onore e del dovere, e la follia costruttiva e distruttiva della guerra. Ma l'influenza de "La Grande Illusione" si estende ben oltre, toccando l'immaginario collettivo di innumerevoli film sulla prigionia e sulla fraternità in contesti avversi, da "Stalag 17" alla profondità psicologica di "Paths of Glory", pur nella loro diversità di toni. Il film è stato accolto con grande entusiasmo dalla critica e dal pubblico internazionale, vincendo il premio per il miglior film al Festival di Venezia del 1937, un riconoscimento audace in un'Italia già sotto la morsa del regime fascista, che infatti lo vietò poco dopo, al pari della Germania nazista di Goebbels, proprio per il suo messaggio universale di pace e umanità che minava le fondamenta dell'ideologia bellicista. Un autentico capolavoro che ancora oggi non cessa di abbagliarci e che ci ricorda, con una forza disarmante, l'importanza imperitura di superare le barriere ideologiche e culturali per costruire un mondo basato sul rispetto e sulla comprensione reciproca.

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