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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

La sanguinaria

1950

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Dimenticate Bonnie & Clyde. Arthur Penn ha creato un mito glamour, una ballata folk-rock per l'era della controcultura. Ma diciassette anni prima, Joseph H. Lewis, un auteur della Serie B con l'anima di un poeta espressionista, aveva già raccontato quella storia, e l'aveva fatto senza filtri, senza ralenti romantici, senza il fascino di Faye Dunaway. La sanguinaria (titolo originale, infinitamente superiore: Gun Crazy) è un film che odora di polvere da sparo, sudore stantio e disperazione. È un'opera girata con quattro soldi che, per pura intelligenza di mise-en-scène e febbrile intensità tematica, si eleva a capolavoro assoluto del noir.

Il film è, prima di ogni altra cosa, un trattato di psicoanalisi applicata al feticismo. Il protagonista, Bart Tare (interpretato da un John Dall perfetto nella sua nevrotica debolezza), non è semplicemente un ragazzo a cui piacciono le armi; è un uomo definito dalla sua ossessione. L'intera sequenza d'apertura è un saggio freudiano: il piccolo Bart, sotto una pioggia battente, che fissa la vetrina di un negozio di pistole con desiderio quasi erotico, il furto, il processo in tribunale minorile dove la sorella cerca di spiegare che lui "non è cattivo", è solo... diverso. L'arma, per Bart, non è uno strumento di violenza, ma un prolungamento di sé, l'unica cosa che sa controllare in un mondo che non lo capisce. È, in termini junghiani, il suo archetipo.

Ma un archetipo da solo è incompleto. Ha bisogno della sua controparte. E la trova in Annie Laurie Starr (Peggy Cummins). Il loro incontro non è un meet-cute; è una collisione di patologie. In un luna park, tempio del bizzarro e dell'illusione, Laurie è l'attrazione principale di uno spettacolo di tiro. Bart, reduce dal riformatorio e da un periodo nell'esercito, la sfida. Quello che segue non è una gara di tiro. È un corteggiamento. È un atto sessuale. Lewis filma i due che si passano le pistole, sparano all'unisono, si guardano con un misto di desiderio e riconoscimento, come se stessero compiendo un rituale tantrico. È una delle scene di seduzione più esplicite della storia del cinema, e non si vede un centimetro di pelle. L'arma è il medium della loro connessione.

Se Bart è ossessionato dalla forma della pistola, Laurie è ossessionata dalla sua funzione. È lei il vero "proiettile" del film. Peggy Cummins, con il suo aspetto da bambola di porcellana e occhi che sembrano capaci di calcolare la traiettoria di un proiettile, crea una delle femme fatale più terrificanti del cinema. Non è la calcolatrice cerebrale di Barbara Stanwyck in La fiamma del peccato o la lussuriosa Ava Gardner di I gangsters. Laurie è pura, caotica, annoiata id. È l'incarnazione dell'inverso oscuro del Sogno Americano. "I want things, Bart. A lot of things. I don't want to wait," gli dice. Non è malvagia in senso morale; è amorale in senso capitalistico. Vuole la ricchezza, l'eccitazione, la notorietà, e la vuole ora. Vede in Bart non un amante, ma lo strumento perfetto per ottenerla.

È un'opera sull'America del dopoguerra. Mentre la nazione si crogiolava nell'ottimismo della vittoria e costruiva i suburbia, il noir di Lewis e dello sceneggiatore (non accreditato) Dalton Trumbo frugava nel cassonetto di quel sogno. Non è un caso che la sceneggiatura sia di Trumbo, che all'epoca scriveva sotto pseudonimo (usando Millard Kaufman come prestanome) perché vittima della Lista Nera maccartista. Si sente la rabbia di Trumbo, la sua critica a una società che produce alienazione e poi punisce chi non si conforma. Bart e Laurie non sono "criminali" nel senso classico; sono i figli illegittimi del consumismo, celebrità mancate che decidono di prendere ciò che la società promette ma nega. Laurie, in particolare, è ossessionata dalla loro notorietà sui giornali; sono i precursori della "fama per la fama" dell'era moderna.

Ma il genio del film è Joseph H. Lewis. Gun Crazy è la dimostrazione definitiva che la grandezza di un auteur non si misura dal budget. Lewis trasforma i limiti della produzione (studi spogli, location reali, poco tempo) in una dichiarazione estetica. Il film è girato con una velocità e un'urgenza che tolgono il fiato. La camera non è mai statica; è nervosa, sporca, sempre addosso ai protagonisti, intrappolandoli in primi piani sudati o seguendoli in carrellate disperate. L'illuminazione di Russell Harlan non accarezza, colpisce. Le ombre non sono solo assenza di luce, sono trappole psicologiche.

E poi, c'è quella scena. La rapina alla banca di Hampton. È un momento che ha riscritto la grammatica del cinema d'azione, un'intuizione che anticipa di un decennio la Nouvelle Vague. Lewis piazza la macchina da presa sul sedile posteriore della macchina della fuga. E non stacca. Per tre minuti e mezzo, in un unico, ininterrotto piano sequenza, viviamo la rapina in tempo reale. Sentiamo la tensione tra Bart e Laurie, la sua esitazione, la sua ferocia. La vediamo entrare in banca (mentre noi restiamo in macchina, impotenti come Bart), sentiamo le urla, gli spari, la vediamo tornare di corsa, l'allarme che suona, la fuga caotica, il poliziotto che cerca di aggrapparsi all'auto.

Questa non è un'acrobazia tecnica; è una scelta morale ed estetica. Rifiutando il montaggio (l'illusione della sicurezza, la manipolazione del tempo), Lewis ci costringe alla complicità. Non siamo spettatori; siamo passeggeri. Siamo intrappolati in quella macchina con loro. La claustrofobia, il panico, la realtà sporca del crimine (lontana mille miglia dalle rapine eleganti di un Asfalto bollente) ci colpiscono in pieno volto. È cinema-verità applicato al noir.

Il film è strutturato come una fuga inarrestabile verso l'abisso. L'unica pausa idilliaca, quella in cui Bart cerca di convincere Laurie a una vita "normale", è solo il preludio alla caduta finale. La loro amour fou è una simbiosi tossica: lui ha bisogno di lei per dare uno scopo al suo feticismo, lei ha bisogno di lui per usarlo. Ma è una relazione sbilanciata. Bart è il "bravo ragazzo" che non vuole uccidere; Laurie non ha di questi scrupoli. Quando, durante una rapina a un mattatoio (simbolismo quasi sfacciato: il luogo della morte industriale), Laurie uccide a sangue freddo, il patto è rotto. Bart capisce di aver creato un mostro, o meglio, di aver liberato quello che lei è sempre stata.

La fuga finisce dove devono finire tutti i sogni americani distorti: in una palude. L'ambientazione urbana, fatta di strade e diners anonimi (i non-luoghi dell'alienazione americana), lascia il posto a uno scenario primordiale, quasi preistorico. Avvolti in una nebbia espressionista, braccati dagli amici d'infanzia di Bart (ora rappresentanti della Legge), i due amanti sono ridotti alla loro essenza animale. È un ritorno all'utero oscuro, un paesaggio dell'anima dove la civiltà non esiste più. E qui, nell'ultimo, disperato confronto, il dramma si compie. Laurie, completamente ferale, è pronta a uccidere ancora. E Bart, l'uomo che per tutta la vita ha amato le armi ma odiato l'omicidio, è costretto a usare la sua pistola contro l'unica persona che abbia mai amato, per salvare gli altri. La uccide. E un istante dopo, i fucili della polizia lo abbattono. La nebbia inghiotte i loro corpi.

La sanguinaria è un capolavoro teso come un filo di pianoforte. È un B-movie con l'ambizione e la profondità di una tragedia greca. È la linea di faglia tra il noir classico e la ribellione moderna di Godard e Penn. È cinema essenziale, puro e mortale.

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