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Le Mani sulla Città

1963

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Il cinema di Rosi è stato, da sempre, uno strumento di lotta: esattamente come quello di Ken Loach, è un mezzo di denuncia sociale e di indagine documentata. Ma mentre Loach spesso si concentra sulle microstorie individuali per illuminare disfunzioni sistemiche, Rosi eleva la sua indagine a una dimensione quasi macroeconomica e politica, svelando la fitta trama di interessi che sottende la cronaca, trasformando ogni inquadratura in una dichiarazione di intenti civili. La sua non è mera narrazione, bensì un'inchiesta filmata, un contro-reportage che squarcia il velo dell'ufficialità per rivelare le verità più scomode.

Le Mani sulla Città è forse l’opera più impegnata in tal senso: Rosi denuncia il malaffare che circonda la città di Napoli: appalti accomodati, politici compiacenti, speculazione edilizia, lottizzazione selvaggia. Napoli, in questo film, non è solo uno sfondo pittoresco, ma una protagonista vivente, una tela su cui si proiettano le piaghe di un boom economico post-bellico sfrenato, il cosiddetto "Sacco di Napoli" degli anni '50 e '60, emblema di una febbre costruttiva che ha sfigurato il paesaggio urbano in nome del profitto. Il regista non si limita a raccontare una storia, ma disseziona un sistema, svelando le nervature di potere che alimentano la corruzione.

La storia è incentrata su Edoardo Nottola (Rod Steiger), losco personaggio che fa della speculazione edilizia la sua principale attività, appoggiato in questo dalla maggioranza che governa la città. Steiger, con la sua presenza scenica imponente e la capacità di incarnare una virulenza quasi shakespeariana, dona a Nottola una complessità che va oltre la semplice malvagità: è un uomo spietato, certo, ma anche un astuto stratega, un animale politico la cui ambizione non conosce freno, capace di muoversi con disinvoltura tra le maglie della burocrazia e le ambiguità della morale pubblica. Il suo cinismo non è un tic, ma la sua filosofia di vita, il motore inesorabile di ogni sua azione.

Un vecchio palazzo nel centro di Napoli crolla improvvisamente a causa di un adiacente cantiere edilizio di proprietà di Nottola. La tragedia innesca un meccanismo di indagine e auto-assoluzione che è il vero cuore del film. Una commissione d’inchiesta stabilirà che i permessi sono stati concessi regolarmente – una beffa alla giustizia, un'ulteriore conferma della perversione del sistema – ma Nottola sarà ormai diventato personaggio scomodo per la maggioranza politica che guarderà altrove per realizzare i suoi squallidi affari negandogli il posto in consiglio comunale promesso in passato. Questa è la grande lezione del film: non c'è onore tra i ladri, e il sistema è sempre pronto a divorare i suoi stessi figli quando diventano un peso, o quando una vittima sacrificale si rende necessaria per salvare la facciata.

Nottola cercherà in ogni modo di opporsi alla decisione, muovendosi come un predatore ferito, disperato nel tentativo di riaffermare il proprio potere e la propria influenza. La sua lotta è quella dell'individuo contro un Leviatano che egli stesso ha contribuito a creare, un circolo vizioso che incarna il destino di molti personaggi rosimi, condannati a rimanere intrappolati nelle dinamiche di potere che credono di dominare.

Un’opera di una crudezza documentaristica impareggiabile, davvero notevoli le riprese dei consigli comunali con le inquadrature strette dell’opposizione che strepita mentre la maggioranza alza simultaneamente le mani per dimostrare che sono “mani pulite”. Questa sequenza, iconica e quasi brechtiana nella sua forza allegorica, non è solo una riproduzione fedele della prassi parlamentare, ma una metafora visiva potentissima della farsa democratica, dove il voto non è espressione di volontà ma un gesto performativo, un rito svuotato di senso, un muro compatto di interesse. Rosi, con la sua regia asciutta e la fotografia in bianco e nero che accentua il realismo quasi da cinegiornale, immerge lo spettatore in un'atmosfera di palpabile tensione, quasi si trattasse di un'inchiesta giornalistica in tempo reale. Non è un caso che il film vinse il Leone d'Oro a Venezia nel 1963, suscitando dibattiti furiosi e aprendo una breccia nel cinema italiano dell'epoca, affermando un genere, quello del "cinema civile", che avrebbe avuto illustri epigoni in registi come Gillo Pontecorvo con La Battaglia di Algeri o Elio Petri con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, pur mantenendo Rosi una sua impronta inconfondibile, quasi da sociologo armato di macchina da presa.

Un argomento, come si può notare, di stringente attualità purtroppo. Il malaffare di Napoli è la malattia che ha consumato l’Italia dal dopoguerra ad oggi: corruzione, inciuci tra poteri forti e mondo degli affari, connivenze politiche. La denuncia di Rosi non si ferma alla superficie dello scandalo, ma scava nelle profondità di una patologia sistemica che ha infettato il tessuto sociale ed economico del Paese, mostrando come il "miracolo economico" italiano avesse, nel suo ventre, il germe della speculazione selvaggia e dell'illegalità istituzionalizzata. Tutto questo è tristemente attuale e il film di Rosi, oltre ad essere un meraviglioso esempio di cinema di denuncia, è sempre drammaticamente vivo e reale per il nostro Paese, un monito perenne che la storia non è solo un susseguirsi di eventi, ma un ciclo di vizi e virtù che, se non riconosciuti e combattuti, sono destinati a ripresentarsi, a mutare forma ma non sostanza. La lungimiranza di Rosi sta nell'aver colto la natura endemica di tale corruzione, trasformando un episodio locale in un affresco universale dell'eterna lotta tra etica e interesse.

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