Viaggio all'inferno
1991
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Viaggio all'inferno (Hearts of Darkness: A Filmmaker's Apocalypse) è un Doppelgänger testuale, un'opera che sta ad Apocalypse Now (1979) come l'ombra di Peter Pan sta al suo corpo: inseparabile, ma con una vita propria, oscura e contorta. Diretto da Fax Bahr, George Hickenlooper ed Eleanor Coppola, questo documentario non si limita a cronometrare i disastri di una produzione leggendaria; esegue una vivisezione psicologica dell'atto creativo, dimostrando che il "viaggio all'inferno" non era solo quello del Capitano Willard, ma quello, molto più reale e infinitamente più costoso, del suo regista, Francis Ford Coppola. È il Burden of Dreams di Werner Herzog per la generazione del New Hollywood, un'epica dell'ossessione dove la "giungla" non è solo un luogo, ma uno stato mentale.
Il genio del film risiede nella sua fonte. Questa non è un'analisi oggettiva, retrospettiva. Il cuore pulsante del documentario è il materiale girato all'epoca, nelle Filippine, dalla stessa Eleanor Coppola. Non era lì come regista; era lì come "moglie del regista", armata di una cinepresa 16mm e, cosa ancora più letale, di un registratore audio. Il risultato è che Viaggio all'inferno non è un reportage; è una confessione. Le immagini mostrano il caos logistico—i set distrutti, gli attori in preda a crisi—ma è l'audio a fornire l'orrore. Le registrazioni segrete di Eleanor delle crisi di nervi notturne di Francis, dei suoi monologhi sulla bancarotta, della sua paranoia crescente, sono il vero "cuore di tenebra".
Il documentario stabilisce immediatamente la sua tesi meta-testuale: Francis Ford Coppola non sta dirigendo un film su un uomo che impazzisce nella giungla; Francis Ford Coppola è un uomo che impazzisce nella giungla. Il suo famoso proclama alla conferenza stampa di Cannes—"Il mio film non riguarda il Vietnam. È il Vietnam"—non era iperbole. Era una diagnosi. Il film ci mostra un auteur all'apice del suo potere (reduce dai trionfi de Il Padrino e La Conversazione) che decide di scommettere tutto—la sua fortuna, la sua sanità mentale, la sua casa—su un progetto che non ha una sceneggiatura, non ha un finale e non ha limiti. Coppola non è Willard. È Kurtz. È il generale impazzito che si costruisce un regno nel fango, esigendo un'obbedienza assoluta mentre sprofonda nel delirio di onnipotenza. La produzione diventa una metafora della guerra stessa: illogica, fuori controllo, dispendiosa in termini di vite (quasi) e di denaro, e moralmente ambigua.
Il documentario orchestra i disastri non come incidenti, ma come atti di un dramma inevitabile, quasi cosmico. La Natura (il Tifone Olga che spazza via i set per un valore di milioni di dollari) e la Politica (l'esercito filippino di Ferdinand Marcos che ritira gli elicotteri noleggiati—in piena ripresa—perché deve andare a combattere una vera guerriglia) non sono ostacoli: sono la realtà che invade la finzione, costringendo Coppola a un'iper-realtà che non aveva previsto. Ma l'orrore vero proviene dagli esseri umani. Il film documenta la quasi-morte del suo protagonista, Martin Sheen, stroncato da un infarto nel mezzo della giungla. Non stava interpretando la disintegrazione di Willard; la stava vivendo. La sua crisi fisica diventa lo specchio della crisi spirituale del regista.
E poi, c'è l'arrivo del mostro. Il cuore di tenebra ha un nome: Marlon Brando. L'intera seconda metà del documentario è un thriller psicologico sull'arrivo di Kurtz. Coppola ha pagato milioni (in anticipo) per un attore che si presenta sulla location in modo quasi irriconoscibile: massicciamente sovrappeso (un problema non da poco, per un "guerriero della giungla"), completamente impreparato (non ha letto il libro di Conrad, non ha letto la sceneggiatura), e filosoficamente contrario a qualsiasi idea di "recitazione". Le sequenze in cui vediamo un Coppola terrorizzato che cerca letteralmente di estrarre una performance da un Brando che borbotta, improvvisa e chiede di essere filmato nell'ombra, non sono "dietro le quinte". Sono la cronaca di un esorcismo. Coppola ha navigato il fiume per trovare il suo oracolo, e ha trovato un buco nero di carisma che minaccia di inghiottire l'intero film. È il panico creativo allo stato puro.
Viaggio all'inferno è, in definitiva, un saggio sulla megalomania necessaria dell'arte. Francis Ford Coppola appare come un re Lear moderno, che vaga nella tempesta (letterale) della sua stessa ambizione. Il film ci costringe a chiederci: è possibile creare un capolavoro senza questa follia? È necessario rischiare la bancarotta e l'infarto per toccare la verità? Il documentario non giudica Coppola; lo osserva con la precisione di un entomologo e l'empatia di una moglie. È la storia di un uomo che è andato "troppo oltre" e che, per miracolo, è riuscito a tornare indietro portando con sé un film. Viaggio all'inferno non è un accessorio di Apocalypse Now; è il suo necessario contraltare, un dittico in cui la creazione e la distruzione, la follia e il genio, si riflettono l'uno nell'altro fino a diventare indistinguibili. Non si può capire Apocalypse Now senza aver visto questo.
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