Hoop Dreams
1994
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Regista
A volte, le grandi opere nascono per caso, come mutazioni genetiche impreviste nel DNA del cinema. Iniziano come un progetto modesto, una breve indagine, per poi espandersi in maniera organica e inarrestabile, divorando il tempo e la vita dei loro stessi creatori, fino a diventare qualcosa di monumentale, di definitivo. "Hoop Dreams" è uno di questi miracolosi incidenti. Nato come un cortometraggio di 30 minuti per la televisione pubblica, il progetto di Steve James, Frederick Marx e Peter Gilbert si è trasformato in un'odissea di cinque anni e 250 ore di girato, un'epopea che trascende i confini del documentario sportivo per diventare la cosa più vicina a un "Grande Romanzo Americano" che il cinema abbia mai prodotto.
Il film segue le vite parallele di due adolescenti afroamericani di Chicago, William Gates e Arthur Agee, entrambi dotati di un talento prodigioso per la pallacanestro. Entrambi vengono reclutati da un talent scout per frequentare la St. Joseph High School, un'istituzione cattolica prestigiosa e a maggioranza bianca nella periferia suburbana, la stessa alma mater della leggenda NBA Isiah Thomas. Per le loro famiglie, questa non è solo un'opportunità sportiva; è un biglietto dorato, una via di fuga dalla povertà sistemica, dalla violenza e dalla mancanza di prospettive dei loro quartieri. Il "sogno" del titolo non è solo quello di giocare nell'NBA, ma l'incarnazione stessa del Sogno Americano: la promessa che il talento e il duro lavoro possano frantumare le barriere di classe e di razza.
Ciò che rende "Hoop Dreams" un capolavoro è la sua spietata, quasi crudele onestà nel documentare la fragilità di quel sogno. Il film opera come una vivisezione dell'anima americana, svelando con la precisione di un chirurgo le strutture di potere, le disuguaglianze e le ipocrisie che governano il sistema. La St. Joseph non è un'ancora di salvezza, ma un ingranaggio spietato nell'industria del basket giovanile, un mercato della carne dove i corpi adolescenti sono valutati, sfruttati e scartati con gelida efficienza. Quando Arthur Agee non si sviluppa abbastanza rapidamente, il suo sostegno finanziario viene tagliato e la sua famiglia, incapace di pagare la retta, è costretta a ritirarlo. Torna in una scuola pubblica del centro, il suo "biglietto d'oro" stracciato. William Gates, più promettente, rimane, ma il suo corpo cede sotto la pressione insopportabile, un infortunio al ginocchio minaccia di far deragliare la sua intera esistenza.
La struttura narrativa del film ha la vastità e la profondità psicologica di un romanzo di Theodore Dreiser o di un'opera di Émile Zola. James non si limita a filmare le partite; entra nelle case, nelle cucine, nei salotti. Assiste alle liti familiari, alla disperazione di un padre che sprofonda nella dipendenza, alla resilienza incrollabile di una madre che lotta per tenere le luci accese. In questo, il film riecheggia la purezza del neorealismo italiano. La scena in cui la famiglia Agee festeggia il compleanno di Arthur con una torta improvvisata, mentre la corrente elettrica è stata staccata per bollette non pagate, ha la stessa carica emotiva e la stessa dignità devastante del furto della bicicletta di Antonio Ricci nel capolavoro di De Sica. Non è la cronaca di un evento, ma la rivelazione di una condizione umana.
Il montaggio, per cui il film ricevette la sua unica, beffarda nomination all'Oscar (venendo scandalosamente ignorato per il Miglior Documentario, uno dei più grandi abbagli nella storia dell'Academy), è un'opera di genio narrativo. Crea un contrappunto costante tra le vite di William e Arthur, le loro fortune che si alzano e si abbassano come piatti di una bilancia cosmica. Mentre uno trionfa, l'altro vacilla. Mentre uno affronta la pressione di essere "il prescelto", l'altro combatte per non essere dimenticato. Questo parallelismo non è solo un artificio drammatico; è una disamina profonda del ruolo della fortuna, del caso e delle circostanze nella definizione di un destino. Il film ci costringe a chiederci: cosa separa davvero il successo dal fallimento? Un millimetro in un tiro libero? Un legamento che cede? Il colore della propria pelle o il codice postale in cui si è nati?
In una dimensione meta-testuale, "Hoop Dreams" è anche una riflessione sul potere e sui limiti dell'osservazione documentaristica. Come nella serie Up di Michael Apted, che segue un gruppo di britannici a intervalli di sette anni per esplorare l'impatto della classe sociale, il tempo stesso diventa un personaggio. Vediamo i volti dei ragazzi trasformarsi, le loro voci abbassarsi, l'innocenza lasciare il posto a una stanca consapevolezza. Ma a differenza della distanza più clinica di Apted, la cinepresa di Steve James è un'entità partecipe, quasi un membro della famiglia. Questo solleva un interrogativo che ricorda il principio di indeterminazione di Heisenberg: l'atto di osservare questi ragazzi per cinque anni ha alterato il loro percorso? La presenza della troupe ha fornito un sostegno, una convalida, o ha aggiunto un'ulteriore, insostenibile pressione? Il film non offre risposte facili, lasciando che questa tensione vibri sotto la superficie della narrazione.
Il finale di "Hoop Dreams" è ciò che lo eleva da grande film a opera immortale. Sovverte ogni cliché del genere sportivo. Non c'è la vittoria all'ultimo secondo, non c'è il contratto milionario che risolve ogni problema. Il trionfo, qui, è più sottile, più amaro e infinitamente più reale. Il successo non è arrivare all'NBA, ma sopravvivere al sistema che ti ha masticato e sputato. È vedere Arthur, dopo non essere stato scelto da nessuna università di prima divisione, giocare con gioia e abilità in un campetto del quartiere, parlando del suo futuro con una maturità che il liceo di lusso non avrebbe mai potuto insegnargli. È vedere William, il cui sogno NBA è svanito, iniziare il college e trovare un'identità al di là del campo da gioco. Il "sogno" si è trasformato. Non è più una destinazione glamour, ma un processo continuo di auto-definizione, una lotta quotidiana per la dignità.
"Hoop Dreams" è un documento storico, un saggio sociologico, un dramma familiare e un thriller sportivo fusi in un'unica, perfetta entità. È un film che dimostra come la vita reale, se osservata con abbastanza pazienza, empatia e intelligenza, contenga più suspense, più tragedia e più grazia di qualsiasi sceneggiatura. È l'epos omerico di due ragazzi comuni lanciati in una guerra che non hanno scelto, armati solo di un pallone da basket e di una speranza fragile. La loro non è una storia di vittoria o di sconfitta nel senso convenzionale del termine. È una storia di resistenza. E in questo, è una delle storie più profondamente e dolorosamente americane mai raccontate.
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