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I dieci comandamenti

1956

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Un sipario di velluto cremisi si apre, non sulla sabbia del Sinai o sui fasti di Pi-Ramses, ma su un proscenio teatrale. Un uomo in abito scuro, la cui gravitas sembra piegare lo spazio-tempo del Technicolor attorno a sé, si rivolge direttamente a noi. Non è un attore, né un personaggio. È il demiurgo stesso, Cecil B. DeMille, sommo sacerdote del kolossal, che ci introduce alla sua opera con la solennità di chi non sta per proiettare un film, ma per officiare un rito. Questa rottura della quarta parete, oggi la interpreteremmo come un vezzo post-moderno, un ammiccamento alla Brecht, ma nel 1956 era un atto di consacrazione. DeMille non ci sta dicendo "state per vedere una storia"; ci sta ammonendo: "state per assistere a una Rivelazione, e io ne sono il vostro tramite". È questo il patto che "I dieci comandamenti" stringe con lo spettatore: un'immersione totale non nella Storia, ma nel Mito, trattato con la sincerità e la magniloquenza di una fede incrollabile. La fede di DeMille, tuttavia, non è solo quella nel Dio di Abramo, ma una fede ancora più radicale e totalizzante: quella nel Cinema.

Il film è una cattedrale gotica eretta con la pellicola VistaVision. Ogni inquadratura è un affresco, ogni dialogo una navata, ogni movimento di massa una vetrata istoriata. DeMille non dirige, scolpisce. Scolpisce la performance monolitica di Charlton Heston, un Mosè la cui mascella sembra cesellata nel granito del monte Horeb e la cui evoluzione da principe egizio a profeta barbuto è meno un percorso psicologico e più una metamorfosi omerica. Non c'è spazio per il dubbio o la sfumatura nel suo Mosè; egli è un archetipo, un Golem di rettitudine animato da una fiamma divina. La sua statura fisica e morale è così imponente da far impallidire non solo i comuni mortali, ma anche i concetti stessi di verosimiglianza e naturalismo. È una figura che non appartiene al cinema del Metodo, ma a quello della statuaria classica, un Laocoonte che lotta non con i serpenti, ma con il peso di un destino divino.

A questo monolito di virtù si contrappone il Ramses di Yul Brynner, una performance che è pura elettricità felina. Se Heston è roccia, Brynner è ossidiana levigata: tagliente, superbo, magnetico. La loro non è semplicemente una rivalità tra fratellastri o un conflitto politico; è una frattura cosmica, la rappresentazione plastica di un dualismo che attraversa tutta la cultura occidentale. È Caino contro Abele, Romolo contro Remo, e, per azzardare un'analogia che DeMille non avrebbe mai potuto immaginare, è il Professor X contro Magneto. Due fratelli, cresciuti insieme, uniti da un passato comune ma divisi da ideologie inconciliabili sul futuro dell'umanità (o, in questo caso, del popolo ebraico). Ramses incarna la Legge dell'Uomo: il potere, lo Stato, la tirannia della volontà individuale che si fa impero. Mosè diventa il portatore della Legge di Dio: un ordine superiore, universale, che libera ma al contempo vincola. Il loro scontro non si consuma in sottili schermaglie psicologiche, ma in dichiarazioni tonanti e pose iconiche che sembrano estratte dalle tavole di un fumetto di Jack Kirby, dove esseri sovrumani si sfidano per il destino del mondo.

Visivamente, DeMille ignora la polvere della storia per abbracciare l'estetica iperrealista e sognante dei pittori orientalisti del XIX secolo, come Jean-Léon Gérôme. L'Egitto del film non è l'Egitto della storiografia, ma un fantasma opulento e sensuale partorito dall'immaginario occidentale, un luogo di pagana decadenza e schiavitù dorata. I costumi di Edith Head sono un trionfo di colori impossibili e texture lussureggianti, le scenografie di Hal Pereira sono talmente vaste da umiliare la realtà. Questo non è un difetto, ma una scelta stilistica precisa. DeMille sapeva che per raccontare il Mito era necessario trascendere il reale, creare un iperuranio visivo dove il miracolo potesse accadere senza stridere. E il miracolo, ovviamente, arriva. La divisione delle acque del Mar Rosso rimane, a quasi settant'anni di distanza, uno dei momenti più sbalorditivi e potenti della storia del cinema. Non è solo un effetto speciale; è l'apoteosi della visione di DeMille, il punto esatto in cui la tecnologia di Hollywood si fa teofania. L'acqua che si erge in due muraglie liquide non è un fenomeno naturale, è la volontà divina che piega la fisica, resa tangibile e terrificante dalla macchina da presa. È un momento di puro sense of wonder che Spielberg e Lucas, figli spirituali di questa grandiosità, avrebbero inseguito per tutta la loro carriera.

Tuttavia, ridurre "I dieci comandamenti" a un semplice spettacolo biblico sarebbe un errore. Il film è, soprattutto, un potentissimo documento della sua epoca, un manifesto della Guerra Fredda travestito da peplum. Uscito nel 1956, in un'America ossessionata dalla minaccia del "comunismo ateo", il parallelismo era lampante. L'Egitto di Ramses, con il suo stato totalitario, il suo leader divinizzato, la sua schiavitù di massa e la sua ostilità verso un Dio trascendente, era una metafora trasparente dell'Unione Sovietica. La fuga degli ebrei non era solo l'Esodo, ma la fuga dei popoli oppressi dal giogo del totalitarismo. La celebre frase di Mosè, "Nessun uomo si farà schiavo di un altro uomo, perché ogni uomo è fatto a immagine di Dio", risuonava come un'eco diretta del discorso ideologico americano. In questo contesto, i Dieci Comandamenti non sono solo regole religiose, ma diventano la carta costituzionale di una nuova nazione fondata sulla libertà individuale garantita da una legge superiore e divina, in netta antitesi con l'arbitrio della legge umana del tiranno. Il film è il mito di fondazione dell'America stessa, riproiettato sulle sabbie del deserto biblico.

La seconda parte del film, spesso considerata meno spettacolare, è in realtà tematicamente ancora più densa. Dopo il trionfo della liberazione, il popolo si trova di fronte a una sfida più insidiosa: la gestione della libertà stessa. La celeberrima sequenza del Vitello d'Oro è un'orgia di anarchia morale, un baccanale disperato che DeMille orchestra con un compiacimento quasi sadico. È la dimostrazione della sua tesi: la libertà senza Legge non è libertà, ma una forma diversa e più caotica di schiavitù, quella alle passioni più basse. Il caos primordiale può essere domato solo da un "codice sorgente" etico, inciso nella pietra. La discesa di Mosè dal Sinai, con il volto trasfigurato dalla luce divina e le tavole della legge in braccio, è la restaurazione dell'ordine. È l'istante in cui una tribù di schiavi fuggitivi si trasforma in un popolo con un'identità e un destino.

"I dieci comandamenti" non è un film che si ama per la sua sottigliezza, ma per la sua audacia. È un cinema pre-ironico, che crede senza riserve nella propria magniloquenza e nella propria missione. DeMille, come il suo Mosè, è un legislatore, un uomo che ha scolpito le regole del kolossal nella pietra, creando un monumento che sfida il tempo non per la sua accuratezza storica, ma per la sua perfezione mitopoietica. È un'opera che, come le piramidi che mette in scena, appare oggi come il prodotto di un'epoca di giganti, la cui ambizione e la cui fede nel potere narrativo delle immagini sembrano appartenere a una civiltà perduta. Guardarlo oggi significa compiere un pellegrinaggio alle sorgenti di un certo tipo di cinema, un cinema che non aveva paura di essere più grande della vita, perché aspirava a raccontare le storie che la vita stessa l'avevano plasmata.

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