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I Sette Samurai

1954

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Akira Kurosawa piazza la sua macchina da presa ancora una volta nel Giappone medioevale, ma è un Giappone di transizione e fermento, quello caotico e sanguinoso del periodo Sengoku, per raccontarci la storia di un manipolo di ardimentosi samurai disoccupati che troverà un impiego presso un villaggio frequentemente attaccato da bande di predoni. Non è una semplice disoccupazione, ma il sintomo di una classe guerriera sempre più anacronistica, i ronin, samurai senza padrone, la cui stessa esistenza è minacciata da un mondo che cambia, dove la lealtà e l’onore del bushido si scontrano con la dura realtà della sopravvivenza.

Sarà l’occasione per un’epopea dove coraggio e senso dell’onore saranno costantemente alla ribalta, ma non in un'accezione semplicistica. Kurosawa, con la sua ineguagliabile profondità psicologica, esplora le sfumature di questi ideali: il coraggio non è solo l'assenza di paura, ma la capacità di agire nonostante essa, spesso dettato dalla disperazione o da un senso del dovere quasi romantico, destinato a scontrarsi con la prosaica realtà. L'onore è un fardello, una catena, un valore che deve essere costantemente ridefinito di fronte alla fame, alla paura e alla reciproca sfiducia tra le classi. L'iniziale diffidenza tra i samurai e i contadini, che vedono i guerrieri come predatori tanto quanto i banditi, è una delle prime, acute osservazioni del film sulla natura umana e sulle barriere sociali.

Un senso della regia fantastico e una storyboard accattivante fanno di quest’opera un monumento del cinema e un punto d’arrivo per ogni operatore del settore. Kurosawa non si limita a inquadrare l'azione; la scolpisce. La sua macchina da presa è un'entità dinamica, capace di lunghe carrellate panoramiche che rivelano l'immensità del paesaggio e la piccolezza dell'uomo, ma anche di primi piani intensi che scavano nell'anima dei personaggi. Il suo uso audace del teleobiettivo, raro per l'epoca, comprime lo spazio e intensifica il movimento, rendendo le battaglie non solo spettacolari ma viscerali, quasi claustrofobiche nonostante l'ampiezza degli scenari. La meticolosità nella pianificazione, con storyboard dettagliatissimi che venivano poi mostrati agli attori e alla troupe, ha permesso una precisione quasi pittorica in ogni inquadratura. Non meno magistrale è la sua direzione degli attori, in particolare l'antitesi tra la saggezza contenuta di Takashi Shimura (Kambei) e l'energia selvaggia, quasi primordiale, di Toshiro Mifune (Kikuchiyo), che diventerà il suo alter ego cinematografico per eccellenza. Il fango e la pioggia battente della battaglia finale, girata per settimane in condizioni estreme, non sono semplici elementi atmosferici, ma personaggi a pieno titolo, che contribuiscono a una fisicità del racconto raramente eguagliata.

“I sette samurai” non è solo un grande film a sé stante, ma la fonte di un genere, l’archetipo ultimo, che avrebbe influenzato il genere per il resto del secolo. Il critico Michael Jeck suggerisce che questo è stato il primo film in cui una squadra viene assemblata per svolgere una missione, ed istantaneamente questo tema narrativo diviene un vero e proprio pattern, un modello a cui ispirarsi. Basti pensare alla sua rielaborazione diretta nel classico western di John Sturges, I Magnifici Sette, ma l'influenza si estende ben oltre: dalla dinamica dei personaggi ne Quella sporca dozzina alla costruzione di squadre per colpi impossibili in film come Ocean's Eleven, fino alle saghe fantascientifiche in cui un gruppo di eroi con abilità diverse si unisce per affrontare una minaccia galattica. Kurosawa ha fornito la grammatica universale per ogni racconto di "band of brothers" o "fellowship".

E a proposito di modelli, il film ne è letteralmente pervaso, visioni ripetute de “Sette Samurai” ne rivelano infatti modelli narrativi ricorsivi che sono tornati nelle opere dei decenni a venire. Questa non è solo una struttura narrativa, ma una visione del mondo che permea ogni scena. Si consideri l’ironia, per esempio, in due sequenze emblematiche che rivelano l'acuta, e talvolta cinica, visione di Kurosawa sulla natura umana e sulla "folla".

Nella prima, gli abitanti del villaggio hanno sentito i banditi che stanno arrivando, e corrono in giro in preda al panico, un'immagine quasi grottesca di terrore collettivo. Kambei ordina al suo samurai di calmare e contenerli, e il Ronin fa la spola da un gruppo all’altro (gli abitanti corrono sempre in gruppo, non singolarmente) per riunire la mandria e intimargli di restare ai propri posti. È l'archetipo dell'eroe che deve salvare l'umanità non solo dai nemici esterni, ma anche dalla sua stessa disperazione autodistruttiva.

Più tardi, dopo che i banditi sono stati respinti, un bandito ferito cade nella piazza del paese, e ora gli abitanti del villaggio, con un'ondata di coraggio che è tanto ritardato quanto spavaldo, corrono in avanti con torce e strumenti agricoli per ucciderlo, un'orda vendicativa e quasi più feroce dei predoni stessi. Questa volta, il samurai li respinge indietro con malcelato disprezzo, non perché provino pietà per il bandito, ma per la viltà e l'opportunismo di quel coraggio postumo. È una rivelazione tagliente della moralità relativa e della natura pragmatica, quasi animalesca, della sopravvivenza.

Un vero e proprio modello di ironia verso il popolo-gregge, la "mandria" umana, che ritornerà in tantissime altre opere e che Kurosawa stesso esplorerà ulteriormente in film come Ran o Il Trono di Sangue. Questo sguardo disincantato sulla massa, capace di opportunismo e crudeltà quanto di resilienza, è ciò che eleva "I sette samurai" oltre il semplice racconto di avventura. La vittoria finale è amara, malinconica, sottolineata dalle parole di Kambei: "Ancora una volta abbiamo perso. Sono i contadini che hanno vinto." I campi fioriscono, la vita continua per i villici che si adattano e prosperano, mentre i samurai rimasti sono di nuovo soli, la loro missione compiuta ma la loro identità ancora in bilico, i loro sacrifici quasi dimenticati nel ciclo inesorabile della vita contadina. È un epilogo che consacra il film come una meditazione profonda non solo sull'eroismo, ma sulla solitudine dell'eroe e sull'indifferenza della storia di fronte alla grandezza individuale.

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