I Vitelloni
1953
Vota questo film
Media: 0.00 / 5
(0 voti)
Regista
Al suo secondo film Fellini dipana il suo meraviglioso linguaggio intessuto di ricordi adolescenziali, personaggi grotteschi, imprese picaresche, ironia di strada. In questa fase aurorale della sua filmografia, il maestro riminese non si limita a replicare la poetica del neorealismo da cui pur proveniva – lo si pensi a Luci del varietà – ma ne inflette le convenzioni, virandole verso una più soggettiva e onirica esplorazione dell'animo umano. È il germe di quello che qualcuno avrebbe poi etichettato come "neorealismo rosa", ma che in realtà è già puro Fellini: l'immersione in un universo di provincia dove il fantastico e il quotidiano si fondono, dove la malinconia si cela dietro la farsa e il desiderio di evasione è palpabile in ogni gesto. Le sue figure, pur nel loro disancoramento, evocano un'antica tradizione di maschere e tipi della commedia italiana, ma filtrate da uno sguardo che è già premonitore delle future, grandiose gallerie umane.
Un’opera che rende dichiaratamente omaggio alla sua venerata Rimini, ricostruita per esigenze cinematografiche sul litorale tirrenico – un artificio spaziale e temporale che testimonia l'essenza stessa del cinema felliniano, che non è mai mera riproduzione della realtà ma la sua reinvenzione emotiva e simbolica – cosa che dopo lo sconcerto iniziale gli fu perdonata dai suoi ammirati concittadini. Rimini, per Fellini, non è solo una città, ma un archetipo, una sorta di Eden perduto e continuamente ricostruito dalla memoria, un porto da cui si fugge e a cui si torna nel mito. Non è la Rimini reale, ma la "sua" Rimini, quella della fanciullezza, dei sogni, delle prime disillusioni, un'atmosfera che ritroverà, in forme più esplicite e monumentali, nel capolavoro autobiografico Amarcord. La scelta di spostare le riprese a Ostia, in un'epoca in cui il neorealismo pretendeva la fedeltà al luogo, è già un atto di audace indipendenza artistica, un segno della sua insofferenza verso i dogmi e della sua precoce consapevolezza che il cinema è soprattutto creazione, non documentazione.
La storia narra le imprese di cinque sfaccendati bighelloni – Fausto, Leopoldo, Moraldo, Alberto e Riccardo – in una Rimini sospesa nel tempo e nella memoria. Non sono semplici ritratti di gioventù inattiva, ma un'indagine quasi sociologica su una certa fetta di mascolinità italiana post-bellica, un'esistenza sospesa tra la noia della provincia e il miraggio di un futuro che non arriva mai. Essi sono figli di un'Italia che, pur avviandosi verso il boom economico, lasciava ampie sacche di disorientamento, di smania di evasione senza una meta definita. Incarnano la sindrome di Peter Pan ante-litteram, la paura di crescere e di affrontare le responsabilità di una vita adulta.
I cinque vivono di scherzi triviali, di vicendevole sarcasmo, di piccoli espedienti tentando di sopravvivere alla furia del giorno e cercando di non fermarsi a pensare alla contingenza. La loro vita è una commedia dell'arte quotidiana, un susseguirsi di goliardate, vanterie e piccole truffe emotive che nascondono un profondo vuoto. Si annullano nel qui e ora, prigionieri di un'eterna domenica, un limbo esistenziale da cui solo uno di loro, Moraldo (interpretato da Franco Interlenghi, alter ego di Fellini stesso), sembrerà trovare la forza di staccarsi, in quella sequenza finale che è una delle più poetiche e malinconiche dell'intero cinema italiano. La loro inazione non è pigrizia, ma un meccanismo di difesa contro la vertigine del futuro, contro l'angoscia della scelta e della responsabilità. Ogni piccola bravata, ogni flirt insignificante, ogni fuga notturna è un tentativo disperato di riempire il vuoto, di illudersi di vivere intensamente, mentre la vita vera scorre via, indifferente alla loro immobilità.
Tra loro in risalto il personaggio contraddittorio di Alberto (Alberto Sordi) che regala squarci di violenza repressa alternati a grottesche rodomontate. L'interpretazione di Sordi è un monumento a sé stante, un crogiolo di comicità amara e patetica mescolata a un'indolenza quasi tragica. Alberto è l'epifenomeno di una certa italianità, un mix irresistibile di mammonismo, opportunismo e un'irresistibile vanagloria. La sua relazione quasi incestuosa con la sorella, la sua gelosia irrazionale e i suoi scatti d'ira, seguiti da altrettanto fragorosi pianti, dipingono un ritratto di immaturità e dipendenza affettiva che è al contempo esilarante e straziante. Sordi, già un astro nascente, qui consolida la sua maschera tragicomica, trasformando Alberto in un archetipo indimenticabile, un uomo-bambino che rifiuta ogni forma di autodisciplina e che vive di espedienti emotivi, prima ancora che materiali.
Un film che mette a nudo la debolezza umana di fronte alla gravità della realtà. Non una realtà socio-politica urlata, ma quella intima e personale delle relazioni interrotte, delle ambizioni frustrate, della paura del fallimento e del confronto con l'età adulta. I "vitelloni" sono creature smarrite, i cui sogni di gloria – la carriera d'attore, il successo letterario, la vita mondana – si scontrano impietosamente con la loro incapacità di agire, la loro pigrizia morale. È il ritratto di un'Italia che deve ancora trovare la sua strada, metafora di una generazione che, pur vivendo un'epoca di fermento e speranza, si trova a navigare a vista, senza una bussola interiore.
La leggerezza dell’ironia si stempera e infine evapora al sorgere dei primi problemi. Il sorriso si fa smorfia, la risata si spegne in un sospiro. La leggerezza, cifra stilistica iniziale, si rivela presto una maschera per una profonda malinconia. Le conseguenze delle loro azioni – una gravidanza inattesa, la fuga di una sorella, la consapevolezza del fallimento artistico – irrompono nella loro bolla di beata irresponsabilità, costringendoli, per un istante, a guardare in faccia la dura verità. È in questi momenti che il film rivela la sua profondità, passando dalla commedia all'amara riflessione esistenziale. Il sipario della farsa si apre su un palcoscenico di solitudini e rimpianti, anticipando quella vena di spleen che avrebbe percorso l'intera opera felliniana, da La Dolce Vita a 8½.
E dietro a questa dicotomia, tra la superficie spensierata e il baratro sottostante, intravediamo in filigrana lo sguardo amorevole di Fellini che non condanna assolutamente, ma che accarezza i suoi vitelloni come il poeta fa con i suoi amati versi. Fellini non giudica, ma osserva con una partecipazione quasi filiale, riconoscendo nei suoi personaggi una parte di sé, delle proprie ansie e dei propri desideri inespressi. La sua è una tenerezza compassionevole, un'empatia profonda per le fragilità umane, un tratto distintivo che farà di lui un "cantore" insuperabile dell'anima italiana. I Vitelloni non è solo un ritratto di un'epoca o di una generazione, ma un'indagine universale sulla difficoltà di crescere, sul fascino perverso dell'immobilismo e sull'eterna lotta tra il desiderio di libertà e la necessità di responsabilità. Un'opera che, a distanza di decenni, continua a risuonare con la sua potenza poetica, offrendoci uno specchio non solo del passato, ma delle sfide eterne dell'esistenza. Il termine "vitellone" stesso è entrato nel lessico comune, a testimonianza dell'impatto culturale e della profondità archetipica di questa opera d'arte.
Generi
Galleria






Commenti
Loading comments...