Movie Canon

The Ultimate Movie Ranking

Il Bandito delle Undici

1965

Vota questo film

Media: 0.00 / 5

(0 voti)

Pierrot Le Fou è una storia di libertà: dalle catene del conformismo, dalle convenzioni sociali, dalla routine omologatrice. Non una libertà qualsiasi, però, ma quella che si svela come un fardello esistenziale, un anelito quasi nihilstico di fronte a un mondo percepito come intrinsecamente falso. È l’urlo liberatorio di un’epoca che, pur non essendo ancora pienamente il ’68, ne porta già in sé i germi e la fermentazione, anticipando quel desiderio di rottura, di ribellione estetica e ideologica che avrebbe poi scosso le fondamenta della società occidentale. Godard, con la sua inconfondibile audacia, non si limita a narrare una fuga, ma dipinge un affresco della disillusione borghese, della ricerca di un senso autentico in un’esistenza che pare averlo smarrito, schiacciata tra pubblicità alienanti e una cultura di massa che anestetizza il pensiero critico.

Godard ritaglia un personaggio metallico: ama e non sa amare, delinque e non sa delinquere. Ferdinand Griffon, magistralmente interpretato da Jean-Paul Belmondo, è un intellettuale fallito, un critico televisivo che si dibatte tra citazioni colte e l’urgenza primordiale della vita. La sua “metallicità” non è rigidità, ma piuttosto una corazza protettiva contro la superficialità del suo ambiente, un guscio che nasconde una vulnerabilità quasi fanciullesca. È un anti-eroe per eccellenza, un Candide del modernismo, che tenta di decifrare un mondo in frantumi con strumenti interpretativi non più adeguati. Questa contraddizione, questo attrito tra la sua natura profonda e la sua goffaggine nell’azione, è ciò che lo rende così umanamente complesso e, paradossalmente, irresistibile.

Eppure lo amiamo fin dal primo momento che appare sullo schermo e ne restiamo perdutamente affascinati. Il suo smarrimento, la sua malinconia pensierosa, il suo disperato tentativo di auto-definirsi attraverso la ribellione, risuonano in ogni spettatore che abbia mai avvertito il peso delle aspettative sociali. La storia è quella di Ferdinand Griffon detto Pierrot, un soprannome che odia ma che lo lega indissolubilmente all'archetipo del folle savio, del clown tragico che svela le assurdità del reale.

Stanco della vita ordinaria – una vita agiata ma vuota, soffocata da conversazioni insensate e colori pastello che quasi stridono con la sua irrequietezza interiore – lascia la famiglia e fugge con una conturbante donna algerina di nome Marianne, interpretata dall’enigmatica Anna Karina, musa e allora moglie del regista. Lasciandosi alle spalle un cadavere, non si tratta solo di un omicidio fortuito, ma di un gesto simbolico, un taglio netto con la vita precedente, un salto nel vuoto che si trasforma in un’odissea esistenziale senza meta né approdo certo. La Marianne di Karina non è una figura di salvezza, né tantomeno una guida; è piuttosto un enigma seducente, una forza della natura imprevedibile e volubile, la cui natura sfuggente incarna la stessa libertà irraggiungibile che Ferdinand persegue. La loro dinamica è un tango di desiderio, incomprensione e violenza implicita ed esplicita, un rapporto che incarna la difficoltà – o forse l'impossibilità – di conciliare l'amore romantico con la fame di autonomia assoluta.

Sarà una vita di fuga e sregolatezze, in precario equilibrio sulle fragili leggi umane. Si muovono tra il Sud della Francia e la Costa Azzurra, in un perpetuo road trip che è meno un viaggio verso una destinazione e più un’esplorazione del non-luogo, della sospensione, del limbo tra un’esistenza abbandonata e una nuova ancora indefinita. Questo vagabondaggio è punteggiato da episodi di violenza improvvisa, intermezzi musicali improvvisati e dialoghi surreali che spaziano dalla filosofia alla politica, dall'arte al cinema stesso. La narrazione si frantuma, i colori esplodono in una tavolozza quasi pop-art – un rosso primario che macchia lo schermo, un blu intenso del Mediterraneo – in netto contrasto con l’oscurità delle tematiche affrontate. Godard rifiuta la coerenza narrativa tradizionale, abbracciando invece la discontinuità, i salti temporali, le ellissi, quasi a voler riflettere la frammentazione della psiche dei protagonisti e della società stessa.

Un film denso di quel lirismo distaccato, à la Godard, dove lo spettatore è al centro di un complicato processo ermeneutico. Il regista non si limita a mostrare; interpella direttamente il pubblico, rompe la "quarta parete" con sfrontatezza brechtiana, con dialoghi a camera che denudano l'artificio cinematografico e ci ricordano che stiamo guardando un film. Questa auto-consapevolezza del mezzo non è un semplice vezzo stilistico, ma una dichiarazione programmatica: il cinema non è evasione, ma uno strumento di indagine critica. È un invito a non accettare passivamente ciò che viene mostrato, ma a impegnarsi attivamente nella costruzione del significato. Il film si trasforma così in un’esperienza dialettica, un’interazione intellettuale che lascia a lui l’ultimo inesorabile giudizio che diviene parte integrante della storia narrata, essa può addirittura mutare nella memoria dello spettatore: per arrivare all’Opera d’Arte non-finita o, se preferite, infinita.

Ogni inquadratura è una pennellata di genio, una citazione visiva o testuale che eleva il film al di là della semplice narrazione. Vi sono richiami espliciti a Rimbaud, a Céline, a Faulkner, ma anche a classici del cinema americano, in un'orgia intertestuale che è tanto un omaggio quanto una decostruzione. La macchina da presa di Raoul Coutard è liquida, quasi un occhio che respira e si muove con i personaggi, cogliendone l’intima essenza e le repentine trasformazioni. La musica, spesso dissonante o improvvisa, sottolinea il senso di precarietà e di rottura, contribuendo a quel disorientamento voluto che è parte integrante del piacere della visione. La celebre scena della "guerra del Vietnam" improvvisata nel bosco, con la sua cruda e quasi grottesca messa in scena, è un esempio lampante di come Godard fondesse la satira politica con l'estetica avanguardista, anticipando di decenni il dibattito sulla rappresentazione mediatica della violenza e il confine sempre più labile tra realtà e finzione. "Pierrot Le Fou" non è solo un film, ma un manifesto del modernismo cinematografico, un’esplosione di idee che continua a interrogare, a provocare e a risuonare nella coscienza collettiva, ben oltre il suo tempo. È un'esperienza intellettuale ed emotiva, un viaggio audace nell'anarchia dell'anima umana e nell'infinita libertà dell'arte.

Featured Videos

Trailer Ufficiale

Commenti

Loading comments...