Il braccio violento della legge
1971
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Regista
Un Babbo Natale lurido e ciondolante insegue uno spacciatore di colore in un vicolo di Brooklyn gelato dal miasma di dicembre. La cinepresa, febbrile, instabile, sembra quasi inciampare insieme a loro. Non è un inseguimento, è una caccia. Non è un’operazione di polizia, è un atto predatorio. In questa manciata di secondi iniziali, William Friedkin non sta semplicemente mettendo in scena un’azione, sta firmando un manifesto. Il braccio violento della legge (titolo italiano che, pur nella sua enfasi, coglie una scheggia di verità) non appartiene al genere poliziesco; lo divora dall'interno, ne sputa le ossa e danza sulle sue rovine. È un trattato di naturalismo urbano che Émile Zola avrebbe scritto se avesse avuto a disposizione una Arriflex 35 IIC e una città sull'orlo del collasso nervoso come la New York del 1971.
La metropoli, qui, non è uno sfondo ma un organismo vivente e malato. Friedkin la filma con il distacco di un documentarista e l'occhio di un espressionista. I grigi, i marroni, il bianco sporco della neve calpestata, il vapore che esce dai tombini come il respiro di un leviatano sotterraneo: è una palette cromatica che esprime un'asfissia morale prima ancora che visiva. Questa New York è un labirinto senza Minotauro, perché il mostro è il labirinto stesso, un sistema entropico che consuma e corrompe chiunque si muova al suo interno. È la stessa città desolata che avrebbe partorito il Travis Bickle di Scorsese cinque anni dopo, ma qui la psicosi non è ancora implosa in un delirio individuale; è una condizione ambientale, un inquinamento dell'anima che impregna l'aria. La macchina da presa di Friedkin, spesso a spalla, nervosa, affamata di dettagli squallidi, non si limita a osservare: partecipa, diventa complice di un degrado che è al contempo fisico e spirituale, registrando la topografia di un impero al tramonto.
Al centro di questo girone infernale si muove Jimmy "Popeye" Doyle. Gene Hackman, in una performance che è meno recitazione e più esorcismo, non interpreta un personaggio, incarna un istinto primario. Popeye non è un eroe. Non è nemmeno un antieroe nel senso romantico del termine. È una forza della natura, un fascio di nervi scoperti, un concentrato di rabbia, pregiudizio e ossessione. Il suo razzismo casuale, il suo disprezzo per le regole, la sua brutalità, non sono presentati come difetti da superare, ma come strumenti necessari alla sopravvivenza nel suo ecosistema. È un cane da caccia che ha fiutato una preda e non la mollerà, non per un senso di giustizia, ma per un impulso biologico, apodittico. È l'uomo del sottosuolo di Dostoevskij con un distintivo e una mira terribile, un essere la cui intera esistenza si giustifica e si consuma nella caccia. La sua relazione con il partner, Cloudy Russo (un Roy Scheider magnifico nella sua normalità), non è di amicizia, ma di simbiosi funzionale: Cloudy è l'ancora di razionalità che impedisce a Popeye di dissolversi completamente nel proprio caos interiore.
La regia di Friedkin, forgiata nel crogiolo del documentario televisivo, è la chiave di volta estetica e filosofica del film. L'approccio quasi clandestino, con riprese "rubate" nel traffico cittadino e l'uso di luce naturale, genera un'iperrealtà che sfonda la quarta parete. Si avverte la sensazione non di assistere a una finzione, ma di spiare la realtà. Questa tecnica, che deve molto al cinema-verità e a opere politiche come Z - L'orgia del potere di Costa-Gavras, viene qui spogliata di ogni intento didascalico per diventare puro linguaggio cinematografico. La verità di Friedkin non è politica, è esistenziale. È la verità del freddo che ti entra nelle ossa, del sapore metallico della paura, del rumore assordante e insensato della città.
E poi, c'è l'inseguimento. Parlarne come di una semplice "scena d'azione" è come descrivere la Cappella Sistina come un "soffitto affrescato". È il cuore tellurico del film, il punto in cui l'ossessione di Popeye diventa esperienza cinetica pura per lo spettatore. Per quasi dieci minuti, ogni regola di narrazione, sicurezza e logica viene sospesa. Friedkin monta un'automobile sotto i binari di una metropolitana sopraelevata e scatena l'inferno. Non c'è musica a sottolineare la tensione, solo lo stridere delle gomme, il fragore del treno, le urla dei passanti terrorizzati. È cinema del pericolo, girato con un disprezzo per le convenzioni che rasenta l'incoscienza (molte sequenze furono girate senza permessi, nel traffico reale, con incidenti stradali non previsti e lasciati nel montaggio finale). L'inseguimento di Bullitt è una coreografia elegante, una danza di motori e stile. Questo è un attacco epilettico. È il collasso della società civile in nome di un obiettivo individuale. Popeye mette a repentaglio decine di vite innocenti non per salvare la città dall'eroina, ma perché non può, ontologicamente, accettare che la sua preda gli sfugga. È il suo imperativo categorico.
In questo universo di brutalità istintiva, la figura dell'antagonista, Alain Charnier (un Fernando Rey glaciale e impeccabile, scelto da Friedkin per un errore di casting e poi tenuto per la sua aura di inarrivabile eleganza), funge da perfetto contrappunto. Charnier non è un semplice criminale; è l'aristocrazia europea, la cultura, la raffinatezza. È tutto ciò che Popeye non è. Il loro duello non è tra bene e male, ma tra due mondi, due metodi, due energie opposte. La scena in cui Popeye pedina Charnier nella metropolitana è un capolavoro di tensione silenziosa, un balletto mortale che culmina nel celebre, beffardo saluto con la mano di Charnier dal treno in partenza. È un momento di riconoscimento reciproco, quasi di rispetto, tra predatore e preda. Charnier è l'intelligenza contro la forza bruta, l'astuzia contro l'ossessione.
La grandezza de Il braccio violento della legge risiede forse, più di ogni altra cosa, nel suo rifiuto totale di offrire una catarsi. Il finale è di un nichilismo che lascia senza fiato. L'operazione culmina in un magazzino abbandonato, in una sparatoria confusa e anticlimatica. Popeye, accecato dalla sua furia, uccide per errore un altro agente federale. Charnier, il bersaglio di tutta questa epica di fango e violenza, svanisce, probabilmente dileguatosi. L'ultima immagine è quella di Doyle che, incurante di tutto, si addentra nell'oscurità del magazzino, spara un ultimo, disperato colpo nel buio, e lo schermo diventa nero. Un suono secco, come un punto fermo. Le didascalie finali ci informano, con la freddezza di un verbale di polizia, che i veri protagonisti della vicenda ricevettero pene lievi e che i narcotrafficanti non furono mai più assicurati alla giustizia.
Non c'è vittoria, non c'è giustizia, non c'è morale. L'ossessione di Popeye ha prodotto solo morte e fallimento. Il sistema, sia quello della legge che quello del crimine, continua a macinare indifferente. Questo finale, impensabile solo pochi anni prima sotto il giogo del Codice Hays, è il sigillo della New Hollywood e la perfetta allegoria di un'America che aveva perso la sua innocenza in Vietnam e stava per sprofondare nella paranoia del Watergate. Il film di Friedkin è un documento sismografico che registra le scosse di un'epoca. Un'opera che trasforma il poliziesco in tragedia esistenziale e la città in un paesaggio dell'anima, dimostrando che il cinema, al suo meglio, non si limita a raccontare storie, ma riesce a catturare la temperatura febbrile della storia stessa.
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