Il Buco
1960
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Regista
Riconosciuto universalmente come il capolavoro di Jacques Becker, Il Buco è l'ultimo, folgorante film del regista francese prima che una prematura morte lo strappasse alla storia della Settima Arte a soli 53 anni. È un'opera testamentaria, un distillato purissimo della sua poetica che raggiunge un livello di rigore e di intensità quasi insostenibili. Tratto da un romanzo autobiografico di José Giovanni e sceneggiato a quattro mani dallo stesso Giovanni e da Becker, il film trae ispirazione dalla mitica figura di Roland Barbat, il Grande Maestro francese delle evasioni, conosciuto da Giovanni in cella. E qui, Becker compie il suo primo, geniale gesto meta-cinematografico: affida a Barbat stesso, con il nome d'arte di Jean Keraudy, il ruolo di uno dei protagonisti e, soprattutto, di narratore. L'incipit del film, con Keraudy che si rivolge direttamente alla macchina da presa, e quindi a noi, per garantirci l'autenticità assoluta della storia che stiamo per vedere, non è un semplice prologo. È un patto di verità, un'abolizione del confine tra finzione e testimonianza che ci immerge immediatamente in un universo di un realismo quasi fisico.
Quattro detenuti che condividono la stessa cella nel carcere parigino di La Santé progettano un'evasione. Nella loro cella, alla vigilia della messa in atto del piano, viene trasferito un quinto detenuto, Claude Gaspard. Dopo essere stato messo al corrente del piano di fuga, e dopo un'intensa valutazione da parte del gruppo, Claude Gaspard decide di unirsi a loro. Il ragazzo infatti è stato imprigionato dopo aver accidentalmente ferito con un fucile da caccia la moglie, gelosa e furente a causa della liason tra il marito e la sorella. La sua estrazione borghese lo rende immediatamente un corpo estraneo in un gruppo di criminali incalliti, e su questa tensione sociale Becker costruisce un sottotesto di diffidenza e di fragile solidarietà. Dopo aver aperto un passaggio nel pavimento, i prigionieri guadagnano l'accesso ai sotterranei della prigione attraverso i quali è possibile raggiungere i cunicoli fognari. Attraverso uno di questi tunnel sotterranei viene individuato un punto in cui è possibile, tramite l'escavazione di un cunicolo di fortuna, raggiungere la rete fognaria pubblica e guadagnare la libertà. Inizia così un lungo e sfibrante lavoro di scavo in cui i detenuti si alternano per completare l'opera, fino all'agognato abbattimento dell'ultimo diaframma che li separa dalla libertà. Ma seppur denudata di ogni difesa, la libertà è una Dama capricciosa e sfuggente che si rivelerà più ardua del previsto da raggiungere.
Becker trasfonde nel film tutta la sua Arte di consumato artigiano della cinepresa. Il suo non è un cinema di grandi discorsi o di psicologismi verbosi, ma un cinema di gesti, di sguardi, di materia. Una visione estetica del mondo che nasce dall'amore per il particolare. Il film è una sinfonia del lavoro manuale. Le lunghe sequenze, quasi mute, in cui gli uomini si alternano per bucare il cemento, non sono parentesi nell'azione: sono l'azione stessa. Becker ci fa sentire la fatica, il sudore, la polvere nei polmoni, il suono assordante del metallo sulla pietra. È il vertice assoluto del cinema processuale, dove il "come" diventa infinitamente più avvincente del "cosa". I vellutati primi piani svelano al pubblico il cuore dell'azione facendo parlare le piccole cose: un pacchetto di sigarette accartocciato, un fiammifero incastrato nel cardine di una botola, l'impugnatura di fortuna di una sega per ferro, una clessidra ricavata con due boccette di medicinali, un ingegnoso manichino costruito con scatole di cartone e mosso mediante una cordicella per ingannare le guardie, i detriti e la polvere dello scavo dei fuggitivi, uno spazzolino con un frammento di specchio per spiare i movimenti delle guardie. Tutti questi oggetti, strumenti umili trasformati dall'ingegno umano in utensili di liberazione, compongono un meraviglioso mosaico che si configura come un ingegnoso e portentoso macchinario narrativo a cui Becker affida la sua opera.
In questo suo rigore quasi ascetico, il parallelismo più calzante è con un altro capolavoro del cinema carcerario, Un condannato a morte è fuggito di Robert Bresson. Entrambi i registi condividono la stessa fede nel potere del dettaglio, nella descrizione meticolosa del processo come forma di narrazione e nella totale assenza di musica extradiegetica per non contaminare la purezza del reale. Ma c'è una differenza filosofica fondamentale. Il film di Bresson è la cronaca di un'impresa solitaria, un atto di fede quasi spirituale di un uomo contro il sistema; la sua fuga è un miracolo. Il Buco, invece, è un'epopea del collettivo. La sua forza e la sua tragedia risiedono nella dinamica di gruppo, nella creazione di una fratellanza forzata, basata sulla fiducia reciproca come unica, fragile risorsa. La grazia, qui, non è divina, ma umana, e per questo infinitamente più precaria. E lo spettatore rimane avvinto da questo microcosmo perfettamente contestualizzato di cui può saggiare ogni più capillare recesso, sentendosi quasi il sesto uomo nella cella. Il risultato è un film di una bellezza fulminante, ultimo prezioso lascito di un grande regista che seppe mettere a nudo l'uomo e le sue nevrotiche contraddizioni attraverso un linguaggio che dalla nuda immagine si allargava a Concetto, dal particolare diveniva iconografia universale capace di imprimersi a fuoco nell'immaginario di chi guardava i suoi film.
Il finale è una delle conclusioni più amare e devastanti della storia del cinema. Dopo giorni di fatica disumana, di rischi mortali e di solidarietà quasi commovente, il sogno della libertà si infrange non contro un muro di cemento, ma contro il muro, ben più invalicabile, del tradimento. Gaspard, il borghese, l'ultimo arrivato, sceglie il proprio interesse individuale sacrificando il destino del gruppo. L'ultima inquadratura, un primo piano prolungato sul volto di Roland/Keraudy che guarda Gaspard attraverso lo spioncino della sua nuova cella, è un abisso di disprezzo e di disillusione silenziosa che vale più di mille dialoghi. In quello sguardo c'è tutta la tragedia del film. Il "buco" del titolo non è solo quello scavato nel pavimento della prigione. È il buco nel patto di fiducia tra gli uomini, la voragine che si apre quando la solidarietà cede il passo all'egoismo. Per questo Il Buco è un capolavoro assoluto: non è solo la cronaca della più grande evasione mai tentata, ma una parabola potentissima sulla difficoltà di fuggire dalla prigione più sicura di tutte, quella della nostra stessa natura.
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