Il caso Mattei
1972
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Regista
Un film può essere un'indagine, una biografia, un atto d'accusa. Oppure, come nel caso de Il caso Mattei di Francesco Rosi, può essere tutte queste cose insieme e, soprattutto, la cronaca del proprio stesso fallimento. Un fallimento deliberato, cercato, esibito come un trofeo, che eleva l'opera da cinema civile a vertiginoso saggio meta-cinematografico sulla natura inafferrabile della Verità nel labirinto del Potere. L'opera di Rosi non è un edificio narrativo compiuto, ma un cantiere a cielo aperto, un dossier le cui pagine sono state volutamente mischiate e alcune, forse le più importanti, strappate via per sempre. L’incipit, folgorante, è già una dichiarazione di poetica: non vediamo la morte di Enrico Mattei, ma la sua riesumazione, il ritrovamento dei rottami del suo aereo. Il film inizia dalla fine, dai frammenti, annunciando che il suo percorso non sarà di ricostruzione, ma di perenne decostruzione.
La struttura è un mosaico cubista, un'architettura rizomatica che rifiuta la linearità temporale per abbracciare quella, assai più complessa, del pensiero e della memoria collettiva. Rosi, come un Funes el memorioso di Borges che tenti di ordinare l'infinita biblioteca della storia italiana recente, salta dal passato al presente dell'inchiesta, intrecciando la vita pubblica di Mattei – le sue battaglie contro le "Sette Sorelle", la sua visione di un'Italia energeticamente autonoma, il suo populismo carismatico – con i tentativi di un decennio dopo di capire cosa accadde quel 27 ottobre 1962 nei cieli di Bascapè. Questo montaggio franto, che potrebbe sembrare caotico, è in realtà di una lucidità spietata: riflette l'opacità del reale, l'impossibilità di stabilire una catena di causa-effetto limpida quando gli attori in gioco sono servizi segreti, mafie, potentati economici internazionali e zone grigie dello Stato. Assomiglia più a un romanzo di Thomas Pynchon che a un biopic tradizionale; un groviglio di paranoie, sigle e sospetti in cui il complotto non è una teoria, ma la grammatica stessa del mondo.
Al centro di questo vortice, Gian Maria Volonté non interpreta Mattei: lo evoca, lo incarna come un golem impastato di ambizione e fango. La sua non è mimesi, è possessione. Con il suo sorriso sornione, lo sguardo d'acciaio e quell'incedere da condottiero rinascimentale prestato al boom economico, Volonté restituisce una figura di una complessità abissale. Il suo Mattei è al contempo un patriota visionario e un capitalista spregiudicato, un affabulatore che seduce le masse e un tecnocrate che tratta con i leader del Terzo Mondo, un Cesare Borgia in loden che usa la corruzione come un'arma politica e l'ENI come il suo ducato personale. È una performance che trascende il realismo per attingere alla potenza del mito, scolpendo un archetipo dell'italiano al potere: geniale, accentratore, pericolosamente indispensabile. Volonté non ci dà l'uomo, ma la sua funzione storica, il suo simbolo.
Il film, però, compie un passo ulteriore, quasi fantascientifico nella sua audacia. Diventa una riflessione sul cinema stesso come strumento d'indagine. Rosi appare nel film, interpreta se stesso mentre dirige, mentre interroga testimoni veri, come il giornalista dell'Associated Press che arrivò per primo sul luogo del disastro. Questa rottura della quarta parete non è un vezzo autoriale; è il cuore pulsante dell'opera. Il cinema si fa specchio della realtà e, nel farlo, la modifica, la interroga, ne diventa parte. Il confine tra finzione e documentario collassa, anticipando di decenni il cinema del reale e le forme ibride della narrazione contemporanea. Vediamo il processo creativo, la difficoltà di reperire informazioni, la reticenza dei testimoni. Il caso Mattei è anche la storia di un film che si sta facendo, un'inchiesta sull'inchiesta.
E qui, la realtà supera la finzione in un modo che gela il sangue. Durante la lavorazione, il giornalista Mauro De Mauro, incaricato da Rosi di ricostruire gli ultimi giorni di Mattei in Sicilia, scompare nel nulla, vittima di lupara bianca. Questo evento tragico e irrisolto non è una nota a piè di pagina; è l'ultimo, straziante capitolo del film stesso, un buco nero che risucchia l'opera e la proietta in una dimensione di urgenza insostenibile. La morte di De Mauro diventa la prova definitiva della tesi del film: indagare su certi misteri italiani non è un esercizio intellettuale, ma un atto che può costare la vita. Il film, a quel punto, cessa di essere una semplice opera cinematografica per diventare un reperto, una testimonianza esso stesso, un corpo del reato. L'assenza di De Mauro pesa sullo schermo più di qualsiasi immagine Rosi avrebbe potuto girare.
In questo, Il caso Mattei si apparenta a capolavori della paranoia politica americana come La conversazione di Coppola o Tutti gli uomini del presidente di Pakula, ma con una differenza sostanziale. Se nel cinema americano l'inchiesta, pur tra mille pericoli, può ancora portare a una verità (i nastri di Gene Hackman, la caduta di Nixon), in Rosi l'indagine si avvita su se stessa, si arena nelle sabbie mobili di un potere invisibile e diffuso. Non c'è un "Gola Profonda" che risolve l'enigma; ci sono solo silenzi, depistaggi, morti. È la rappresentazione perfetta della "strategia della tensione" che avrebbe insanguinato l'Italia negli anni a venire. Il film è un sismografo che registra con agghiacciante premonizione le scosse di un terremoto politico e morale la cui onda lunga arriva fino ai nostri giorni.
La fotografia di Pasqualino De Santis, spesso sgranata, quasi "sporca", contribuisce a questa estetica della precarietà, a questo senso di documento strappato dall'oblio. La musica di Piero Piccioni, ora epica ora malinconica, non commenta l'azione, ma ne esprime la temperatura emotiva, il sottofondo di grandezza e tragedia. Rosi non giudica, non offre soluzioni. Il suo è un gesto maieutico: ci costringe a porci le domande, a guardare negli abissi del potere, a confrontarci con il fatto che la Storia non è un racconto lineare scritto dai vincitori, ma una rissa confusa combattuta nell'oscurità, i cui esiti ci vengono narrati in versioni sempre parziali e contraddittorie.
A più di cinquant'anni dalla sua uscita, Il caso Mattei non ha perso nulla della sua potenza sovversiva. Anzi, nell'era della post-verità e delle narrazioni tossiche, la sua lezione è più attuale che mai. Ci insegna che la forma non è un orpello, ma la sostanza stessa del discorso. Ci dimostra che il cinema più politico non è quello che sventola bandiere o urla slogan, ma quello che mette in crisi le nostre certezze, che smonta i meccanismi della rappresentazione e ci lascia soli, con il peso terribile e fecondo del dubbio. Non è un film su Enrico Mattei. È un film su un'Italia che, come il bireattore del suo più discusso servitore, sembra condannata a schiantarsi un attimo prima di toccare il suolo, lasciando dietro di sé solo rottami indecifrabili e un'interminabile, assordante domanda.
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