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Il cavallo di Torino

2011

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Regista

La leggenda, o forse la verità storica trasfigurata in parabola, narra che il 3 gennaio 1889, in Piazza Carlo Alberto a Torino, Friedrich Nietzsche vide un cocchiere fustigare brutalmente il suo cavallo. Il filosofo, in un impeto di compassione cosmica che segnò il suo definitivo crollo mentale, corse ad abbracciare il collo dell'animale per proteggerlo, scoppiando in lacrime. Poi il silenzio. Dieci anni di buio catatonico fino alla morte. La domanda che Béla Tarr, sommo sacerdote ungherese del cinema escatologico, si pone non è “cosa accadde a Nietzsche?”. Quella è storia, patologia, aneddotica. La domanda che risuona come un tuono sordo per tutti i 146 minuti de Il cavallo di Torino è un'altra, infinitamente più pesante e terribile: “cosa accadde al cavallo?”.

La risposta di Tarr è un poema cinematografico sulla fine di tutte le cose, un'anti-Genesi in sei giorni girata in un bianco e nero così materico e granuloso da sembrare scolpito nel fango e nella cenere. Non c'è Torino, non c'è Nietzsche, non c'è la folla. C’è solo il cocchiere, Ohlsdorfer (János Derzsi), sua figlia (Erika Bók) e il cavallo, intrappolati in una fattoria isolata, sferzata da un vento incessante che sembra voler sradicare dal mondo ogni traccia di vita. Il film si apre con un prologo narrato che ci consegna il fatto di cronaca, per poi abbandonarci, senza appello, alla sua conseguenza metafisica. Assistiamo alla routine quotidiana dei due protagonisti: svegliarsi, vestirsi con gesti meccanici e faticosi, attingere acqua dal pozzo, bollire due patate – l'unico pasto, consumato con le mani, rovente, in un silenzio tombale – e tentare di far lavorare il cavallo. Ma il secondo giorno, il cavallo si rifiuta. Non mangia. Non si muove. È la crepa nel tessuto della realtà, il primo sintomo di un collasso universale.

Se Samuel Beckett avesse scritto la Genesi al contrario, il risultato sarebbe spaventosamente simile a questo. La struttura del film è un countdown ontologico. Giorno dopo giorno, un pezzo del mondo viene sottratto. Il cavallo, la forza motrice, la volontà di vivere schopenhaueriana incarnata, cede. Il pozzo, fonte di vita primordiale, si prosciuga. Un visitatore, un vicino che arriva per comprare della pálinka, vomita un monologo apocalittico sulla degradazione del nobile e del divino, un torrente di parole che è l'ultimo, disperato tentativo di dare un senso narrativo al disfacimento, prima di essere inghiottito di nuovo dalla tempesta. Infine, la luce stessa, le braci nel focolare e la fiamma della lampada a petrolio, si spegne, rifiutandosi di obbedire alle leggi della fisica. Non è l'apocalisse spettacolare di Hollywood, con le sue esplosioni e i suoi eroi. È un'apocalisse per sottrazione, un lento, inesorabile svanire. È l'entropia resa visibile.

Béla Tarr, che ha dichiarato questo essere il suo ultimo film, orchestra il suo requiem con una coerenza stilistica che lascia senza fiato. L'intera opera è composta da appena trenta piani-sequenza. La cinepresa di Fred Kelemen non si limita a osservare; pedina, circonda, si attacca ai personaggi come un sudario, trasformando ogni gesto – sbucciare una patata, indossare un cappotto – in un rituale titanico contro il nulla. La lunga, estenuante durata delle inquadrature non è un vezzo autoriale, ma una precisa scelta filosofica: costringere lo spettatore a sentire il peso del tempo, a vivere la durata dell'esistenza nella sua forma più cruda e ripetitiva. È la stessa logica che anima la Jeanne Dielman di Chantal Akerman, dove la disintegrazione della routine domestica di una donna coincide con la sua disintegrazione psicologica. Qui, però, la disintegrazione non è individuale, ma cosmica.

Il paesaggio sonoro è dominato da due elementi: il lamento perpetuo del vento, quasi un personaggio a sé stante, la voce stessa del vuoto che avanza, e la partitura minimale e ossessiva di Mihály Víg, un ostinato di violoncello che si ripete come un mantra funebre, scandendo i cicli di un'esistenza che gira a vuoto. Il silenzio tra padre e figlia non è di incomunicabilità, ma di esaurimento delle parole. Cosa resta da dire quando il mondo stesso sta tacendo per sempre? In questo universo post-nietzscheano, Dio non è semplicemente morto; non è mai esistito, e persino la sua assenza sta svanendo.

L'analogia più calzante non è forse con il cinema, ma con la letteratura del Novecento. C'è il paesaggio desolato e la disperazione fisica de La Strada di Cormac McCarthy, ma senza il barlume di speranza finale. C'è l'assurdità kafkiana di una condanna senza colpa e senza giudice. Ma soprattutto, come accennato, c'è Beckett. Ohlsdorfer e sua figlia sono Vladimir ed Estragon dopo che è diventato chiaro che Godot non arriverà mai. Sono Hamm e Clov di Finale di partita, chiusi nel loro rifugio mentre fuori tutto finisce. La loro routine non è più un modo per passare il tempo, ma l'ultimo baluardo contro la dissoluzione. Quando il cavallo si ferma, quando il pozzo si secca, quando tentano di andarsene con il loro carretto per poi tornare indietro, sconfitti, al punto di partenza, capiscono di essere prigionieri non di un luogo, ma dell'esistenza stessa. L'unica libertà è la fine.

È un cinema tellurico, anti-psicologico. Non sappiamo nulla del passato di questi personaggi, non abbiamo accesso ai loro pensieri. Sono corpi, definiti dalla loro fatica, dalla loro fame, dalla loro resilienza che si sgretola. János Derzsi, con il suo braccio paralizzato e il volto scavato come una scogliera, è una maschera tragica di una potenza arcaica. Erika Bók, con i suoi occhi spalancati sul vuoto, incarna una rassegnazione che non è debolezza, ma la presa d'atto finale dell'inevitabile. La scena in cui il padre costringe la figlia a mangiare la patata cruda nell'oscurità totale è uno dei momenti più agghiaccianti e potenti della storia del cinema. Non è più nutrimento, è un atto di pura, disperata volontà contro l'annientamento: "Dobbiamo mangiare". Perché? Non c'è risposta. È l'imperativo categorico della vita ridotto al suo grado zero, un istante prima di evaporare.

Il cavallo di Torino non è un film da "godere", è un'esperienza da sopportare. È un'opera terminale, un punto di non ritorno. Tarr prende la compassione di Nietzsche per quella singola creatura sofferente e la espande a una scala universale, mostrando non solo la sofferenza del cavallo, ma la sofferenza intrinseca all'essere, il peso intollerabile della materia. È un film che si pone al di là del bene e del male, al di là della speranza e della disperazione. È un buco nero cinematografico che risucchia ogni luce, ogni significato, ogni narrazione, lasciando solo l'immagine di due esseri umani seduti a un tavolo, nel buio, in silenzio, mentre il mondo, finalmente, si arrende. Un capolavoro assoluto e definitivo. L'ultimo colpo di frusta, prima del silenzio eterno.

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