Il Circo
1928
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Regista
Resta un cerchio impresso nella polvere, dove sorgeva il tendone. È tutto ciò che rimane. E al centro di quel cerchio, di quel vuoto che è anche un simbolo di perfezione e di ciclicità, si ferma Charlot. Raccoglie la stella di carta sgualcita, appartenuta alla donna che ama e che ha appena visto allontanarsi con un altro, un uomo migliore, un uomo che lui stesso ha aiutato a trionfare. La guarda, accenna un sorriso che è una crepa nell'anima, poi la getta via, si dà una scrollata, e con quella sua andatura inimitabile, elastica e dolente, si incammina verso l'orizzonte. L'immagine finale di The Circus è forse il più perfetto e straziante manifesto dell'intera poetica chapliniana: un'epifania della fragilità, del sacrificio e della solitudine cosmica dell'artista, intrappolato in un eterno ritorno.
Realizzato nel 1928, in quel crepuscolo febbrile dell'era del muto che stava per essere spazzato via dalla rivoluzione del sonoro, The Circus è un'opera che vive di una tensione quasi insostenibile. È un film nato dall'inferno personale del suo autore, un crogiolo di disastri produttivi e tormenti privati che, per un miracolo alchemico che solo il genio possiede, si sono trasmutati in una delle più pure e malinconiche riflessioni sulla natura della comicità. La lavorazione fu un calvario: un incendio devastò gli studi dopo un mese di riprese, distruggendo set e negativi; la pellicola subì un deterioramento chimico che costrinse a rigirare intere sequenze; e, soprattutto, la produzione fu bloccata per otto mesi dal divorzio più scandaloso dell'epoca, quello tra Chaplin e la sua seconda moglie Lita Grey. Le accuse infamanti, il congelamento dei beni, la depressione che attanagliò Chaplin fino a rendergli i capelli bianchi: tutto questo non è semplice gossip da biografia, è la filigrana stessa del film.
Quando vediamo Charlot sulla fune, assalito da scimmie dispettose che gli sfilano i pantaloni e lo mordono, non assistiamo solo a una gag di vertiginosa inventiva. Assistiamo alla trasfigurazione artistica di un uomo assediato dai suoi demoni, in equilibrio precario sulla fune della propria sanità mentale, mentre forze caotiche e imprevedibili cercano di farlo precipitare. L'ansia che pervade quella sequenza è reale, palpabile. È l'angoscia di un artista che deve continuare a far ridere il mondo mentre il suo universo privato va in fiamme.
Il film opera a un livello metatestuale di rara intelligenza. Il suo assunto centrale è un paradosso pirandelliano: il Vagabondo è esilarante solo quando non sa di esserlo. Inseguito da un poliziotto, inciampa nell'arena del circo e scatena l'ilarità del pubblico. Il direttore, un uomo brutale e senza scrupoli (un'eco nemmeno troppo velata dei "padroni" di Hollywood?), lo assume, ma quando Charlot cerca di replicare volontariamente le sue gag, il risultato è un fallimento pietoso. La risata, ci dice Chaplin, non può essere ingegnerizzata; sgorga dall'autenticità, dall'incidente, dalla collisione tra l'individuo e le rigide strutture del mondo. È una critica feroce allo show-business e, al contempo, una profonda auto-analisi. Chaplin, il perfezionista maniacale, l'architetto di ogni singolo fotogramma, ammette che la scintilla del suo genio risiede in qualcosa di incontrollabile, di spontaneo, in quella "grazia sotto pressione" che Hemingway avrebbe poi teorizzato.
Il circo di Chaplin non ha nulla della magia sognante e picaresca che troveremo decenni dopo nel cinema di Fellini. Se La Strada è un poema lirico sulla grazia e la brutalità, The Circus è un trattato meccanicistico sulla crudeltà del lavoro dell'intrattenitore. Il tendone è un microcosmo dickensiano, una fabbrica di risate fondata sullo sfruttamento, dove la giovane cavallerizza Merna (Merna Kennedy) è letteralmente affamata e picchiata dal padre-padrone. L'arrivo di Charlot è quello di un elemento anarchico e involontario che scardina un sistema basato sulla ripetizione e l'abuso. Lui non "fa" il clown, lui "è" il clown nella sua essenza più pura, un disadattato la cui stessa esistenza è una performance.
Questa dualità tra l'essere e il fare, tra la comicità involontaria e quella cercata, si estende alla sua relazione con Merna. Lui la ama con una devozione totale, la protegge, la nutre, le insegna a sorridere. Ma lei, come spesso accade nell'universo chapliniano, si innamora dell'altro: il funambolo bello e apollineo, Rex. E qui si compie il sacrificio supremo. Charlot, che soffre di vertigini, si allena segretamente sulla fune per sostituire Rex, ma quando questi ritorna, è lo stesso Vagabondo a orchestrare il loro lieto fine. In una sequenza di una dolcezza lancinante, trucca le carte di una chiromante per convincere il direttore ad approvare il matrimonio, assicurando così la felicità della donna che ama a costo della propria. È l'archetipo dell'eroe romantico byroniano trasposto in un corpo da burattino, il Cyrano de Bergerac della slapstick comedy, che scrive la poesia d'amore per un altro.
L'opera si inserisce in una lunga tradizione iconografica del circo come metafora della condizione umana, da Picasso a Seurat, ma la spoglia di ogni romanticismo per rivelarne l'ossatura esistenziale. Se il circo di Tod Browning in Freaks (che uscirà pochi anni dopo) sarà una comunità di "diversi" che trova forza nella propria coesione contro il mondo dei "normali", qui Charlot è un diverso tra i diversi, un outsider persino all'interno della comunità degli emarginati. Non viene mai veramente accettato; la sua funzione è puramente utilitaristica e, una volta esaurita, viene lasciato indietro senza un pensiero.
In questo, The Circus è forse il film più spietatamente onesto di Chaplin sul prezzo della celebrità e sulla solitudine dell'artista. È un anacronismo glorioso, un capolavoro del linguaggio gestuale che arriva nel momento esatto in cui il cinema sta imparando a parlare. Chaplin, che ricevette un Oscar onorario speciale per questo film (la Academy, forse imbarazzata dalle polemiche, preferì questa via piuttosto che premiarlo nelle categorie principali per cui era nominato), sembra voler lanciare una sfida al futuro: la parola può mentire, può ingannare, ma il corpo, il gesto, la lacrima che si nasconde dietro un sorriso, quelli posseggono una verità universale e imperitura.
Il cerchio finale nella segatura non è solo la fine dello spettacolo. È un mandala, un Ouroboros, il simbolo di un ciclo infinito di speranza, amore, perdita e ripartenza. Charlot non ha vinto, non ha ottenuto nulla di tangibile. Ma, come Sisifo, trova una strana, incomprensibile dignità nel suo destino. Si allontana non come uno sconfitto, ma come un pellegrino che ha completato una tappa del suo viaggio e si prepara, con un'alzata di spalle filosofica, ad affrontare la strada successiva. È un precipizio ontologico mascherato da commedia. Un capolavoro assoluto la cui risata, a quasi un secolo di distanza, risuona ancora con la eco profonda e inconfondibile del dolore.
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