Il declino dell'impero americano
1986
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Regista
Un titolo più provocatorio e splendidamente fuorviante di quello scelto da Denys Arcand per il suo capolavoro del 1986 sarebbe difficile da immaginare. "Il declino dell'impero americano" evoca immagini di aquile cadenti, di crolli di borsa, di crisi geopolitiche. Ci si aspetterebbe un affresco sociopolitico alla Oliver Stone, o forse un documentario polemico. Invece, l'impero che Arcand mette sotto la sua spietata e divertita lente d'ingrandimento non ha sede a Washington, ma nel cuore e, soprattutto, nei lombi dei suoi personaggi: un gruppo di accademici francofoni di Montréal, tanto brillanti nell'analisi storica quanto disastrati nella gestione della propria libido. Il declino, qui, è quello del legame umano, della fiducia, della possibilità di conciliare l'intelletto con il desiderio. È un Kammerspielfilm dell'anima occidentale, travestito da commedia di conversazione.
La struttura è di una semplicità teatrale quasi classica. Da una parte, quattro uomini, professori universitari, preparano una cena in una bucolica casa di campagna, disquisendo con erudizione e volgarità da spogliatoio di avventure sessuali, performance, e del mutevole panorama del desiderio femminile. Dall'altra, in una palestra dall'estetica spietatamente anni '80, le loro compagne (e amanti) fanno lo stesso, con una prospettiva speculare e altrettanto disincantata. Le due metà del film sono due sinfonie verbali parallele, due flussi di coscienza collettivi che si preparano a una collisione inevitabile: la cena. È in questo atto finale che le teorie crollano, le maschere si incrinano e la caotica realtà dei sentimenti irrompe nel salotto intellettuale che i personaggi hanno così faticosamente costruito per proteggersi.
Se si dovesse tracciare una genealogia, Arcand si collocherebbe in un punto di incontro ideale e insolito tra Éric Rohmer e Luis Buñuel. Dei "Racconti morali" di Rohmer, Arcand riprende la centralità della parola come motore dell'azione e la meticolosa esplorazione delle contraddizioni tra ciò che si dice, ciò che si pensa e ciò che si fa. Ma dove Rohmer è un moralista gesuita che filma le tentazioni con una grazia quasi matematica, Arcand è un sociologo sornione, più interessato al fallimento collettivo che al dilemma individuale. I suoi personaggi non sono tormentati dalla scelta morale, ma dalla constatazione del proprio inevitabile e comico fallimento. E qui entra in gioco Buñuel, in particolare quello de "Il fascino discreto della borghesia". Come nel capolavoro del maestro aragonese, anche qui un gruppo di borghesi colti tenta di compiere un rito sociale fondamentale – la cena – ma viene costantemente interrotto. Per Buñuel, l'interruzione era il surreale, l'inconscio che faceva breccia nella realtà. Per Arcand, l'interruzione è la realtà stessa: il sesso, la gelosia, il tradimento, la malattia (l'AIDS aleggia come uno spettro invisibile ma tangibile), che smantellano la fragile impalcatura delle loro conversazioni accademiche.
Questi storici, ironia suprema, usano gli strumenti della loro professione per analizzare la propria vita sentimentale. Paragonano la ricerca della felicità individuale alla caduta dell'Impero Romano, la serialità degli amori moderni alla successione dei sistemi politici, creando un cortocircuito intellettuale esilarante e tragico. La loro logorrea erudita non è uno strumento di comprensione, ma un meccanismo di difesa, un modo per anestetizzare il dolore e la confusione applicando categorie storiografiche a ferite che sono, in fondo, banalmente umane. Sono uomini e donne che sanno tutto sulla storia del mondo, ma non sanno più come amarsi. In questo, anticipano di quasi vent'anni la disillusione e il cinismo colto che diventeranno il marchio di fabbrica di uno scrittore come Michel Houellebecq. C'è lo stesso sguardo disincantato sulla liberalizzazione sessuale come mercato della carne, la stessa malinconia per un'intimità perduta, ma Arcand possiede una tenerezza per i suoi personaggi che Houellebecq raramente si concede. Li osserva mentre si dibattono nella loro stessa intelligenza, come pesci in una rete intessuta da loro stessi, e prova per loro una profonda, dolente compassione.
Il fatto che il film sia stato girato in Québec non è un dettaglio, ma la chiave di volta interpretativa. Questa non è l'America che parla di sé stessa; è lo sguardo laterale, ironico e affettuosamente critico del "vicino di casa" colto e bilingue. È un'analisi della cultura occidentale post-'68 vista da una provincia dell'impero culturale americano che ne ha assorbito i costumi mantenendo però una distanza critica. Il titolo stesso è una forma di "inside joke" intellettuale: l'impero che decade non è quello delle portaerei e di Wall Street, ma quello della promessa di felicità individuale, del mito della liberazione totale che, una volta raggiunto, ha lasciato un vuoto di senso. Il declino è l'incapacità di costruire narrazioni collettive e personali stabili in un'epoca di frammentazione.
La sceneggiatura di Arcand è un miracolo di equilibrio, un torrente di dialoghi che non risulta mai statico o pesante. È un fiume in piena di citazioni, teorie, pettegolezzi e confessioni brutali, scritto con l'orecchio di un musicista e la precisione di un chirurgo. La regia lo asseconda con un'eleganza quasi invisibile, basata su lunghi piani sequenza e un montaggio che detta un ritmo perfetto, alternando l'energia fisica della palestra alla stasi operosa della cucina. Arcand sa esattamente quando staccare, quando soffermarsi su un volto, quando lasciare che una battuta caustica cali nel silenzio imbarazzato della stanza. La fotografia di Guy Dufaux, con i suoi colori caldi e autunnali, avvolge la storia in un'atmosfera di malinconica bellezza, suggerendo che anche la fine di un'era può avere il suo splendore crepuscolare.
Visto oggi, "Il declino dell'impero americano" è un documento storico e, allo stesso tempo, un'opera di una modernità sconcertante. Ha profetizzato l'era della sovraesposizione verbale e della povertà emotiva, l'ossessione per l'auto-analisi che sfocia nel narcisismo. È il precursore di tutto un filone di cinema "parlato", da Richard Linklater a Noah Baumbach, ma conserva una densità intellettuale e una tristezza di fondo che rimangono uniche. E la sua grandezza è stata poi confermata, quasi due decenni dopo, dal suo seguito spirituale, "Le invasioni barbariche", in cui gli stessi personaggi, ormai invecchiati, affrontano l'ultima invasione, quella della morte. Quel film, vincitore dell'Oscar, non sarebbe stato così potente senza le fondamenta gettate qui, in questa casa di campagna dove un gruppo di anime brillanti e perdute cercava di capire, parlando all'infinito, perché la conoscenza non fosse abbastanza per essere felici. L'impero non è crollato sotto il peso di minacce esterne, ma è imploso nel silenzio che segue l'ultima, arguta battuta di una conversazione estenuante, quando ci si rende conto che non è rimasto più niente di importante da dire.
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