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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Il deserto dei Tartari

1976

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La linea dell'orizzonte è la promessa più crudele che l'universo ci abbia mai fatto. È il confine tangibile dell'ignoto, una sutura tra il visibile e l'immaginato che ci attira con il miraggio di un "altrove". Pochi registi hanno saputo filmare questa linea non come uno spazio da raggiungere, ma come una condizione esistenziale. Valerio Zurlini, con il suo capolavoro terminale e testamentario, Il deserto dei Tartari, non si è limitato a filmarla: l'ha trasformata nel personaggio principale, un'entità silente e divoratrice che osserva i suoi protagonisti consumarsi in un'attesa lunga una vita intera.

Trasporre Dino Buzzati è un'impresa che puzza di tradimento annunciato. La sua prosa, così secca, allegorica e intrisa di un'angoscia che potremmo definire "kafkiana-alpina", vive di non detti, di atmosfere interiori. Zurlini, poeta del pessimismo e cantore della disillusione borghese, compie il miracolo. Non si limita a illustrare il romanzo, ma lo reimmagina attraverso un linguaggio puramente cinematografico che ne amplifica la portata universale. Il suo film è un'epopea al contrario, un'Odissea stanziale dove l'unico viaggio è quello interiore, verso il disfacimento del sé. La storia del tenente Giovanni Drogo (un Jacques Perrin perfetto nel suo sbiadire da giovane speranzoso a fantasma in uniforme) che prende servizio nella remota Fortezza Bastiani, ai confini di un impero senza nome, diventa la parabola definitiva sulla vita come anticamera dell'evento che non accadrà mai.

L'intuizione geniale di Zurlini, coadiuvato dalla fotografia monumentale di Luciano Tovoli, è quella di aver compreso che la Fortezza Bastiani non è un luogo, ma uno stato della mente. E per renderlo visivamente, ha compiuto una scelta produttiva audace e quasi folle: girare tra le rovine millenarie della cittadella di Arg-e Bam, in Iran. Questa location non è un semplice sfondo esotico; è la cristallizzazione architettonica del pensiero di Buzzati. Le mura ocra, le geometrie perfette e mortifere dei cortili, le torri che scrutano un nulla pietrificato dal sole, trasformano ogni inquadratura in una tela di De Chirico. È pittura metafisica in movimento. I soldati che marciano in cortili deserti proiettando ombre lunghissime non sono diversi dai manichini nelle piazze d'Italia del pittore; sono presenze assenti, gusci svuotati di scopo la cui esistenza è giustificata unicamente dal rituale, dalla disciplina, dalla forma. Una forma che ha divorato la sostanza.

Il film è un trattato sulla natura del tempo. Zurlini adotta un ritmo glaciale, una dilatazione che non è noia, ma la precisa trascrizione della corrosione dell'anima. I giorni, i mesi, gli anni si fondono in un'unica, estenuante veglia. Le stagioni cambiano, i volti invecchiano sotto il trucco magistrale, ma nulla accade. L'attesa del nemico, i fantomatici Tartari che dovrebbero emergere dal deserto del nord, cessa di essere una contingenza strategica per diventare un bisogno escatologico. Il nemico è l'unica cosa che può dare un senso a quelle vite sospese, l'unica variabile in grado di spezzare l'equazione mortale della routine. È il Godot di Samuel Beckett in divisa militare, un'assenza che struttura l'intera esistenza dei personaggi. Ma se in Beckett c'è ancora un residuo di dialogo surreale, qui regna un silenzio opprimente, interrotto solo dal vento, dal cigolio degli stivali e dalle note spettrali di Ennio Morricone, che compone una delle sue partiture più astratte e angoscianti, un commento sonoro all'entropia dello spirito.

Il cast, un'assemblea di divinità del cinema europeo, è sbalorditivo. Ogni attore incarna una diversa sfumatura della resa. Vittorio Gassman è il generale che ha barattato la gloria con la sicurezza del regolamento; Giuliano Gemma è il maggiore Mattis, un automa consumato dalla disciplina; Max von Sydow è il capitano Hortiz, la cui vita si riduce alla speranza di avvistare qualcosa, qualsiasi cosa, dal suo cannocchiale; Jean-Louis Trintignant è il medico militare che diagnostica con freddezza la malattia incurabile del tempo. Sono tutti prigionieri e carcerieri di loro stessi, intrappolati in un panottico esistenziale dove la minaccia non viene dall'esterno, ma dall'interno: dal sospetto che la Fortezza non sia un avamposto per difendere un impero, ma una discarica per esistenze superflue.

In questo, il film di Zurlini si erge come un monumento desolato nel panorama culturale del suo tempo. Uscito nel 1976, nel cuore degli Anni di Piombo italiani, Il deserto dei Tartari sembrava parlare una lingua fuori sincrono, eppure ne catturava l'essenza più profonda. In un'epoca di scontro ideologico frontale, di attesa spasmodica della rivoluzione o della reazione, il film metteva in scena la paralisi, l'implosione di un sistema (quello militare, ma per estensione, quello sociale) che continua a funzionare per inerzia, senza più credere al proprio scopo. La Fortezza Bastiani è l'Italia di quegli anni: una nazione fortificata, che scruta un nemico (interno o esterno che sia) la cui definizione è sempre più sfuggente, mentre la vita vera scorre via, sprecata in una veglia armata e sterile.

La sua modernità, a quasi cinquant'anni di distanza, è sconcertante. In un'era di gratificazione istantanea e di FOMO (Fear Of Missing Out) elevata a nevrosi collettiva, la storia di Drogo è un memento mori di una potenza inaudita. È un'allegoria sul lavoro che diventa l'intera identità, sulla carriera come surrogato della vita, sulla promessa di un futuro "momento decisivo" che ci impedisce di vivere il presente. In un certo senso, siamo tutti Giovanni Drogo, in attesa di una promozione, di un'occasione, di un evento che convalidi le nostre esistenze, mentre il deserto della quotidianità avanza e ci inghiotte. La sua tragedia non è la morte, ma l'arrivare alla fine del percorso scoprendo di non aver mai realmente lasciato la linea di partenza.

Confrontarlo con altri film è un esercizio tanto necessario quanto limitante. Si potrebbe pensare all'Aguirre di Herzog, girato pochi anni prima, per la discesa nella follia in un ambiente ostile, ma la follia di Zurlini è fredda, burocratica, ordinata, non esplode in deliri di onnipotenza ma implode in una rassegnazione silenziosa. Si potrebbe evocare lo Stalker di Tarkovskij, per il viaggio verso un luogo che è metafora dell'anima, ma Zurlini nega ogni trascendenza. La sua è una metafisica del vuoto, un materialismo disperato. Forse l'unico vero parente cinematografico è il Kubrick di 2001: Odissea nello spazio, per quel senso di geometria sublime e disumana, per il ritmo che costringe lo spettatore ad abbandonare le proprie aspettative narrative e ad arrendersi a un'esperienza puramente sensoriale e filosofica.

Il finale è una delle conclusioni più crudeli e perfette della storia del cinema. Quando i Tartari, finalmente, appaiono all'orizzonte – un miraggio, forse, o forse la tanto agognata realtà –, Drogo è ormai vecchio, malato, congedato. L'Evento è arrivato, ma per lui è troppo tardi. La battaglia della sua vita, l'unica che avrebbe potuto dargli un senso, dovrà combatterla da solo, in una stanza d'albergo anonima, contro un nemico ben più invincibile: la morte. Zurlini ci nega la catarsi della battaglia, lasciandoci con l'amarezza di una vita sprecata non per un errore, ma per una scelta reiterata ogni singolo giorno. Una scelta di lealtà a un'illusione. Il deserto dei Tartari è un'opera immensa, un monolite che si erge a testimonianza della fragilità delle nostre ambizioni e della tirannia silenziosa del tempo. È il capolavoro assoluto di un regista che ha sempre guardato in faccia l'abisso, restituendocene un'immagine di insostenibile, magnifica e terribile bellezza.

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