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Il dolce domani

1997

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La fiaba del Pifferaio di Hamelin, così come la conosciamo attraverso la penna dei fratelli Grimm, non è una storia per bambini. È un monito oscuro, un contratto faustiano stipulato da un’intera comunità e poi infranto, con una punizione tanto spietata quanto poetica: la sparizione del futuro. Atom Egoyan, cineasta-architetto di labirinti emotivi e traumi stratificati, prende questo archetipo e lo immerge nel bianco accecante e letale di un inverno canadese. Il dolce domani non è semplicemente un film sul dolore; è la cristallizzazione cinematografica del dolore stesso, un’opera frattale in cui ogni frammento di tempo, ogni testimonianza, ogni silenzio riflette l'infrangersi di un’intera cosmologia comunitaria.

Siamo a Sam Dent, una piccola cittadina del British Columbia la cui esistenza è definita più dalla neve che la seppellisce per mesi che da qualsiasi altra caratteristica. Un giorno, lo scuolabus slitta su una lastra di ghiaccio e precipita in un lago gelato, portando con sé quasi tutti i figli della città. Su questa landa desolata di lutto collettivo scende Mitchell Stephens (un Ian Holm monumentale, la cui performance è un saggio sulla rabbia repressa e la disperazione professionale), un avvocato metropolitano che arriva per offrire non consolazione, ma un bersaglio. Vuole intentare una causa, trovare un colpevole, tradurre l'inconcepibile in una cifra di risarcimento. Stephens è il nostro Pifferaio moderno: non usa un flauto ma il linguaggio seducente della legge, promettendo di liberare la città non dai topi, ma dalla colpa e dall’impotenza.

Egoyan, fedele al suo stile che aveva già perfezionato in opere come Exotica e The Adjuster, frantuma la linearità del racconto. Il film è un mosaico temporale, un andirivieni costante tra il "prima", il "durante" e il desolato "dopo". Questa non è una scelta stilistica fine a se stessa, ma una profonda intuizione ermeneutica: il trauma non è un evento con un inizio e una fine, ma una condizione permanente che riprogramma il tempo, costringendo i sopravvissuti a un'eterna coesistenza con il fantasma di ciò che è stato. La narrazione si muove come la memoria di un traumatizzato, per associazioni, per improvvise epifanie dolorose, per ritorni ossessivi su dettagli apparentemente insignificanti. Egoyan ci nega la catarsi facile di una ricostruzione cronologica, costringendoci a condividere lo stato confusionale e spezzato dei suoi personaggi. La struttura del film è il suo tema principale.

In questa partitura polifonica del dolore, due voci emergono come pilastri narrativi: quella di Stephens e quella di Nicole (una Sarah Polley magnetica e matura oltre i suoi anni), un'adolescente sopravvissuta all'incidente ma paralizzata dalla vita in giù. Stephens funge da catalizzatore esterno, un uomo che cerca di imporre un ordine logico – la narrazione processuale – su un caos emotivo. Ma la sua crociata non è pura. Egoyan, con la sua consueta precisione chirurgica, ci rivela che anche l'avvocato è un genitore spezzato, la cui figlia è persa in un altro tipo di abisso, quello della tossicodipendenza. La sua rabbia pubblica è lo specchio della sua impotenza privata; la causa per i figli di Sam Dent è un esorcismo per la figlia che non può salvare. In una scena straziante e quasi insostenibile su un aereo, confessando la sua storia a un'estranea, Stephens rivela il motore oscuro della sua missione: un dolore così personale da diventare universale.

Nicole, d'altra parte, è l'oracolo della comunità, la custode della memoria. È lei che, dalla sua sedia a rotelle, rievoca i momenti prima della tragedia, in una narrazione quasi onirica che apre il film. Ma la sua testimonianza è contaminata da un segreto ancora più oscuro, un tabù che precede e forse, in un modo perverso e metafisico, prepara il terreno alla tragedia stessa: l'incesto con suo padre. Questo dettaglio, tratto dal romanzo di Russell Banks da cui il film è magistralmente adattato, non è un colpo di scena melodrammatico, ma la chiave di volta dell'intera architettura morale del film. La colpa a Sam Dent non è arrivata con l'incidente; era già lì, sotto la superficie gelata dei rapporti, nelle case apparentemente perfette. L'incidente non ha creato il marcio, lo ha semplicemente portato alla luce.

La poetica di Egoyan qui raggiunge una purezza quasi bergmaniana. Il paesaggio canadese, fotografato da Paul Sarossy con una bellezza fredda e implacabile che evoca i panorami desolati di un Pieter Bruegel il Vecchio, non è uno sfondo, ma un personaggio. È l'indifferenza cosmica di fronte alla tragedia umana. Il bianco abbagliante della neve e il blu scuro del ghiaccio creano una palette visiva che congela le emozioni in superficie, lasciandole ribollire furiosamente al di sotto. La colonna sonora di Mychael Danna, che utilizza strumenti antichi come la viola da gamba e flauti rinascimentali, contribuisce a questa sensazione di fiaba nera, trasponendo la tragedia moderna in una dimensione mitica, senza tempo.

Il film converge verso l'inevitabile deposizione di Nicole, il momento in cui la narrazione costruita da Stephens dovrebbe trovare la sua consacrazione. E qui, Egoyan compie il suo scarto più radicale e geniale. Nicole mente. Con una calma glaciale, racconta una bugia deliberata che fa crollare l'intero castello legale, mandando via il Pifferaio e lasciando la città sola con il suo dolore, ma libera dalla finzione della giustizia monetaria. Perché lo fa? La risposta è la tesi stessa del film. La sua bugia è un atto di potere, l'unico che le è rimasto. È un rifiuto di permettere che il suo dolore, e quello della comunità, venga semplificato, mercificato e trasformato in una storiella di negligenza e risarcimento. È un atto di ribellione contro la pretesa del linguaggio – legale, terapeutico, persino narrativo – di poter contenere e spiegare l'assoluto.

In un certo senso, la bugia di Nicole è una verità più profonda. Protegge il padre dal suo peccato ma, più in generale, protegge la memoria complessa e inesprimibile della comunità. Accetta che non ci siano risposte facili, che il dolore non possa essere esternalizzato su un capro espiatorio. È un atto terribile e, allo stesso tempo, un atto di suprema, disperata pietà. Lascia Sam Dent senza soldi, ma con la propria, straziante verità intatta. Se il cinema di Robert Altman, come in Nashville o Short Cuts, usava la struttura corale per esplorare la fragile interconnessione della società americana, Egoyan la usa per mostrare la sua definitiva disintegrazione sotto il peso di una tragedia che va oltre la capacità di elaborazione collettiva.

Il dolce domani è un'elegia funebre che si interroga sulla funzione stessa del racconto. Cosa ci facciamo con le storie dopo la fine del mondo? Cerchiamo un colpevole, come vuole Stephens, per poter continuare a credere in un universo ordinato? O accettiamo il silenzio e il mistero, come sembra suggerire la bugia finale di Nicole? Il film non offre risposte, ma ci lascia sospesi in questa domanda, nel freddo pungente di un "dopo" che non promette alcuna dolcezza, ma solo la difficile, quasi impossibile, necessità di continuare a esistere. È un capolavoro desolante e perfetto, un film che non si limita a mostrare il lutto, ma che ci insegna un nuovo, terribile linguaggio per comprenderlo.

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