Il Figlio di Saul
2015
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Regista
Si può affrontare l'orrore indicibile con una cinepresa e un copione in mano? Si può rappresentare l'irrappresentabile, il cuore nero di Auschwitz, senza cadere nell'oscenità della spettacolarizzazione? Il regista ungherese László Nemes, con la sua opera prima Il Figlio di Saul, non solo risponde affermativamente a questa domanda, ma lo fa con una tale, radicale intelligenza formale da ridefinire i confini etici del cinema sull'Olocausto. Filtra la brutalità della Storia con un espediente narrativo struggente e una serie di accorgimenti tecnici che trasformano il suo film in un lancinante atto d'accusa dalla bellezza primordiale e terribile. La Shoah ha da sempre strazianti implicazioni e feroci risvolti che ne fanno un argomento davvero complesso da trattare. Da un lato è facile cadere nella retorica consolatoria di un film come La Vita è Bella, dall'altro è altrettanto probabile precipitare in un arido documentarismo. Nemes dimostra di essere cineasta di enorme caratura aggirando ogni insidia semantica e morale. Anzitutto con l'uso di un taglio registico che implica il formato 4:3 per il suo film, una veste grafica che non è un vezzo rétro, ma una scelta etica: è una prigione visiva, un riquadro claustrofobico che nega l'ampiezza panoramica e spettacolare dell'orrore. E poi con un uso ossessivo di primi e primissimi piani del protagonista, mantenendo quasi costantemente sfocato il contesto e lo scempio che vi si consuma. Questa non è solo una scelta stilistica, è una risposta diretta al dogma di Claude Lanzmann, regista di Shoah, secondo cui ogni tentativo di ricreare le camere a gas è un atto di profanazione. Nemes non ricrea, suggerisce. Ci nega la visione pornografica della morte di massa e ci costringe a immaginarla attraverso un sonoro infernale e i frammenti di orrore che appaiono e scompaiono ai margini dell'inquadratura. In questo modo, crea una sorta di barriera visiva che tiene sullo sfondo lo strazio di un feroce genocidio e focalizza l'attenzione sul protagonista e il suo titanico, folle scopo.
Siamo nell'ottobre del 1944 ad Auschwitz-Birkenau. Si sta consumando uno dei più terrificanti crimini della Storia e l'orrore nell'orrore è l'aver affidato a squadre di ebrei il lavoro manuale nelle camere a gas e nei forni crematori, i famigerati Sonderkommandos, creati dai Nazisti per evitare ai propri uomini la frustata psicologica di quel che avveniva in quei luoghi dimenticati da Dio. Come scrisse Primo Levi, e il film è la perfetta incarnazione di questa intuizione, "Aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti". Saul Ausländer è un ebreo ungherese che fa parte di questo gruppo di disperati. La sua esistenza è un automa, i suoi movimenti sono meccanici, il suo sguardo è vuoto. Un giorno, rimuovendo i cadaveri falcidiati dal gas, Saul scopre il corpo di un ragazzo che sembra essere sopravvissuto per pochi istanti all'asfissia, prima di essere soffocato da un medico delle SS. Saul crede, o forse decide di credere, che quel ragazzo sia suo figlio. Da quel fatale momento, una volontà incrollabile si fa strada nell'animo dell'uomo: dare una decente sepoltura al ragazzo secondo il rito ebraico, strappando le sue spoglie alla voracità dei forni crematori. Questa ricerca assume i contorni di un'Antigone moderna. Come l'eroina di Sofocle che sfida le leggi del re Creonte per seppellire il fratello, Saul sfida le leggi disumane del lager, che riducono i corpi a mero materiale da smaltire, per obbedire a una legge più alta, quella della pietà e del sacro. La sua ricerca di un rabbino che possa recitare il Kaddish, in mezzo a un'umanità che ha perso ogni riferimento, è un atto di resistenza spirituale assoluta. Per perseguire il suo fine, l'uomo dovrà accettare compromessi e piegarsi a indicibili umiliazioni, transitando in zone remote del Campo, spesso in contrasto con i suoi compagni, che stanno pianificando la rivolta. Sullo sfondo, infatti, agiscono gli eventi storici della tristemente famosa rivolta dei Sonderkommandos dell'ottobre del '44 e il loro disperato tentativo di scattare fotografie per documentare l'operato dei Nazisti, immagini che verranno sepolte e ritrovate dopo la guerra.
Un film che fa male. Impregnato di una ferina poetica che tenta di far emergere il disperato intento di un padre che, in un caos funesto e fagocitante, vuole ad ogni costo seppellire suo figlio allontanando da lui il vilipendio e l'oltraggio del fuoco. Ma è davvero suo figlio? Il film, con intelligenza sopraffina, lascia la domanda aperta. Altri prigionieri dicono a Saul che lui non ha mai avuto un figlio. Questa ambiguità è fondamentale: eleva la missione di Saul da un atto di amore paterno a un gesto simbolico universale. Quel ragazzo diventa ogni figlio, un agnello sacrificale per l'intera umanità. La ricerca di Saul non è più solo una questione privata, ma un tentativo di imporre un singolo atto di dignità umana sulla macchina industriale dello sterminio. Il viso di Géza Röhrig, che non è un attore professionista ma un poeta, è un'icona martellante di un'umanità dilaniata che non vuole arrendersi. La sua performance è un capolavoro di sottrazione: il suo volto è una maschera quasi inespressiva, uno specchio vuoto su cui noi spettatori proiettiamo l'orrore che a lui è dato vedere e a noi no.
È un lungo brivido che ci ricorda dolorosamente fino a che punto l'uomo sia stato feroce con l'uomo, ma anche fino a che punto possa spingersi un padre per ritrovare una pietà, un'umanità che gli è stata strappata via. La ricerca di Saul è una ricerca di un ultimo, residuo "scarto di civiltà" laddove niente rimaneva in piedi. La sua ostinazione nel trovare un rabbino è la ricerca di una parola, di un rito, di un gesto che possa affermare che quella vita, e tutte le altre, hanno avuto un significato. Il finale è di una bellezza e di una crudeltà lancinanti. Saul e un piccolo gruppo di fuggiaschi trovano un rifugio temporaneo in un capanno nel bosco. Per un istante, la tensione si allenta. Un giovane contadino biondo appare sulla soglia e scambia uno sguardo con Saul. Per la prima e unica volta nel film, Saul sorride. È un sorriso fragile, quasi impercettibile, un momento di grazia purissima, come se in quel volto innocente rivedesse per un attimo il figlio che non ha potuto salvare. Ma è solo un istante. Il ragazzo fugge, spaventato, e subito dopo si sentono le voci e i passi dei soldati nazisti che si avvicinano. La speranza si spegne con la stessa rapidità con cui si era accesa. Il Figlio di Saul è un'opera capitale non perché ci mostra l'Olocausto, ma perché reinventa il modo in cui esso può essere mostrato, trovando un equilibrio quasi impossibile tra obbligo di testimonianza e rispetto per le vittime. È un'esperienza cinematografica totalizzante, un viaggio all'inferno guidato da una visione artistica ed etica di una coerenza assoluta.
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