Il Grido
1957
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Regista
Un doloroso messaggio di incomunicabilità, questa potrebbe essere la suprema sintesi di questa affascinante opera di Michelangelo Antonioni, un film che, pur spesso oscurato dalla fama della successiva "trilogia dell'alienazione" (L'Avventura, La Notte, L'Eclisse), ne rappresenta una matrice imprescindibile, quasi una premonizione. "Il Grido" è il crogiolo in cui il regista ferrarese affina il suo sguardo sul vuoto esistenziale, sulla difficoltà del connettersi in un mondo che sembra aver perso la sua bussola morale e sentimentale, un tema che diverrà la cifra stilistica inconfondibile del suo cinema.
Il regista affida ad un viaggio l’esperienza mistificante dell’emarginazione sentimentale del protagonista e attraverso i suoi occhi rielabora un paesaggio di provincia ostile, inconoscibile attraverso la cartina di tornasole di un amore fallito. Non si tratta di un mero fondale, ma di un interlocutore silente, un co-protagonista in carne ed ossa, o meglio, in terra e nebbia. La pianura padana, con i suoi orizzonti infiniti e i suoi centri abitati desolati, diviene una mappa dell'anima di Aldo, una proiezione esterna del suo disorientamento interiore.
La storia è imperniata sul viaggio di un uomo, Aldo, interpretato da uno Steve Cochran la cui fisicità rude e la cui espressione perennemente corrucciata incarnano alla perfezione l'archetipo dell'uomo in crisi, e della sua figlioletta, Rosina, attraverso la regione padana. Questo itinerario, che attraversa un'Italia ancora segnata dalle cicatrici del dopoguerra, ma già proiettata verso un modernismo disumanizzante, è meno una fuga e più un erratico peregrinare, privo di meta o di una vera direzione, se non quella dettata dall'impulso del momento. Rosina è l'unica ancora di salvezza apparente, un fragile legame con una normalità perduta, ma anche lei è destinata a disperdersi nel turbine dell'alienazione paterna.
L’uomo si è allontanato di casa dopo aver litigato con la compagna Irma che lo ha lasciato per un altro e cerca attraverso il movimento una sorta di catarsi, un tentativo di redenzione. Ma la sua è una ricerca vana, condannata in partenza. Aldo, operaio di raffineria, è un relitto di un mondo patriarcale che sta scomparendo, incapace di elaborare il lutto della perdita e di accettare il rifiuto. Il suo "grido" è soffocato non solo dall'incomunicabilità con gli altri, ma dalla sua stessa incapacità di formulare un senso o uno scopo, un eco delle tematiche esistenzialiste che permeavano la cultura europea dell'epoca, rendendo il film un ponte tra il neorealismo delle macerie fisiche e il modernismo delle rovine spirituali.
Ma persone e luoghi che gli si faranno incontro non faranno altro che allontanarlo ancor di più dalla realtà, dalle emozioni e in definitiva da se stesso. Ogni incontro – con le donne del suo passato, con figure marginali incontrate per strada – non offre sollievo, ma agisce come uno specchio implacabile, riflettendo la sua solitudine. Da Andreina, la prostituta dal cuore gentile, a Virginia, la gestrice di pompa di benzina, fino a Elvia, la sua ex cognata, ogni donna rappresenta un'occasione mancata, un frammento di un futuro che non può o non vuole afferrare. Sono figure femminili che, pur nella loro vulnerabilità, sembrano possedere una resilienza e una consapevolezza assenti in Aldo, il quale rimane impantanato nel suo passato, incapace di muoversi oltre.
Un grandioso film sulla parola non detta, sul passato che mastica la vita, sui rapporti umani azzerati, sullo straniamento causato da una vita fatta di correlazioni oppressive. È un'ode amara al silenzio assordante che si instaura tra gli individui, all'incapacità di esprimere i sentimenti più profondi o di accogliere quelli altrui. Il passato non è un ricordo da cui trarre lezione, ma una zavorra inesorabile che trascina Aldo in un abisso di disperazione. I rapporti umani, effimeri e superficiali, si azzerano appena nascono, lasciando un vuoto che la presenza dell'altro non riesce a colmare. Lo straniamento non è solo psicologico, ma quasi ontologico, una condizione esistenziale in cui l'individuo si sente estraneo a se stesso e al mondo circostante, un'eco del "male di vivere" di cui parlava Montale.
Antonioni, in quest'opera, distilla la sua estetica minimalista e rigorosa. La macchina da presa si muove con una lentezza quasi ipnotica, soffermandosi su volti, gesti, e soprattutto, su quei dettagli ambientali che acquistano un'eloquenza quasi metaforica: una palude che inghiotte la strada, un palo del telefono solitario, un ponte che non porta da nessuna parte. La composizione visiva è di una precisione quasi pittorica, con inquadrature che spesso prediligono campi lunghi e totali, immergendo il fragile protagonista in paesaggi vasti e indifferenti. Il paesaggio sonoro è altrettanto cruciale: il fruscio del vento, il rumore dei macchinari, il fischio del treno, si fondono in una sinfonia di alienazione, spesso sovrastando le rare e inefficaci parole pronunciate dai personaggi, amplificando così il senso di solitudine e incomunicabilità. È la messa in scena di un'agonia silenziosa, dove persino il "grido" del titolo è un'implosione, un urlo che non trova voce.
"Il Grido" rappresenta un momento cruciale nel cinema italiano, segnando un distacco netto dalle convenzioni del neorealismo più ortodosso, pur mantenendone la predilezione per i non-attori e le location autentiche. Laddove il neorealismo cercava una speranza, seppur flebile, nella solidarietà sociale, Antonioni scava nelle ferite dell'anima individuale, mostrando le devastazioni emotive di un benessere economico che non si traduce in felicità o comprensione. Il film, presentato a Cannes dove vinse il Premio FIPRESCI, fu inizialmente incompreso da una parte della critica, che lo trovò troppo pessimista o criptico. Eppure, proprio in questa audace esplorazione dell'interiorità e nell'abbandono delle certezze narrative, risiede la sua grandezza profetica, anticipando le inquietudini di una società che avrebbe presto scoperto la propria solitudine nel cuore della prosperità.
Un’opera in cui l’ambiente circostante è filmato con studiata nettezza, una pulizia che sembra essere analogia di un dolore inesauribile, di un vissuto che si impasta ad alberi, filari e campi della pianura padana e ne esce dissolto nel nulla, un grido afono che esce dal ventre della terra spegnendo ogni speranza. La sequenza finale, in cui Aldo ascende la torre per poi precipitare, è l'apice di questa fusione tra l'uomo e il suo ambiente. Non è un atto eroico, né un gesto liberatorio, ma il compimento inevitabile di un percorso di autodissoluzione. Il suo corpo che si fonde con la terra, la sua voce che non si ode, la sua esistenza che si annulla nel paesaggio indifferente, sono la più cruda e definitiva affermazione del messaggio di Antonioni: l'incomunicabilità non è solo un ostacolo, ma una condizione ineludibile, un destino in cui ogni tentativo di connettersi risuona come un silenzio assordante.
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